Pil_Italia_grandi_aziende

Piccola è bella, grande (azienda) è meglio

L’Italia ha cominciato a perdere i trend di sviluppo dei Paesi a noi storicamente vicini già agli inizi degli Anni 90. Tra le cause principali di tale sganciamento si deve sicuramente annoverare la riduzione della presenza di grandi aziende nel nostro territorio. Tale fenomeno ha continuato per tutti i 30 anni passati – continua tuttora – contribuendo alla riduzione del nostro Prodotto interno lordo (Pil).

Diversi i fattori che hanno influenzato il calo del Pil italiano: l’abbandono dell’Italia da parte di numerose grandi aziende a capitale privato; il ridimensionamento di alcune aziende che non hanno retto la competizione internazionale; la vendita di alcune di esse a imprese estere con ridimensionamento della loro struttura italiana; lo scarso volume di innovazione generato dal nostro sistema economico-industriale; il mancato arrivo delle nuove multinazionali tecnologiche.

Le grandi aziende sono molto importanti per l’economia di un Paese: generano importanti ecosistemi nel loro intorno geografico e nelle loro catene del valore, alimentando direttamente e indirettamente lo sviluppo del sistema delle Piccole e medie imprese (PMI). Queste ultime, con la graduale riduzione della presenza delle grandi aziende in Italia e del business da loro indotto, hanno dovuto trovare autonomamente gli sbocchi sul mercato finale. Si sono, però, qui trovate a competere senza le necessarie economie di scala, attivando quindi solamente tanti piccoli mercati di nicchia (con l’inevitabile basso impatto su occupazione e Pil nazionale). Anche la loro capacità di innovazione non ha potuto trovare le sufficienti economie di scala per generare significativi aumenti del valore dei prodotti-servizi rispetto al passato.

In realtà numerose aziende sono riuscite ad agganciarsi a filiere di grandi aziende straniere. Questo è il caso del Fashion e soprattutto dell’Automotive, dove le nostre PMI rappresentano buona parte della Supply chain delle aziende francesi e tedesche. Ovviamente si tratta della parte della catena del valore a minori margini (quelli importanti li fa chi ha in mano il mercato finale). Tali filiere hanno comunque contribuito a tenere in piedi l’economia italiana per un po’ di anni, ma con due importanti problemi. Primo: nell’industria manifatturiera siamo stati al traino di quella tedesca proprio negli anni in cui la Germania cresceva meno degli altri Paesi (Francia e Spagna). Secondo: dopo il 2007, Berlino ha cominciato a rivolgersi per tali forniture ai Paesi dell’Est Europa che potevano, e possono, godere di un costo del lavoro orario pari a un terzo del nostro (10 euro l’ora contro i nostri 30).

Un po’ diverso, ma uguale negli effetti, è stato il decadimento della filiera del Fashion dove la maggior parte del valore aggiunto è ora consolidato nelle aziende straniere che hanno acquisito brand italiani aggiungendoli ai loro, lasciando a noi solo parte del valore aggiunto della produzione (ben poca cosa rispetto al prezzo di vendita che consolidano nei loro fatturati di holding). Le nostre PMI non sono purtroppo riuscite ad attivare nel contempo sufficienti business alternativi e il nostro Pil reale è crollato dal 2008 in poi (-20% rispetto ai Paesi concorrenti).

Paghiamo l’uscita delle grandi aziende

Ma che fine hanno fatto dunque le grandi aziende italiane? Alcune non hanno retto la concorrenza globale. Si pensi, per esempio, alle imprese degli elettrodomestici, che erano leader mondiali e si sono fatte soppiantare o acquisire persino da realtà scandinave, che avevano (e hanno) un costo del lavoro maggiore. La causa di ciò è stata probabilmente l’incapacità dei nostri imprenditori e manager di passare da una fase esplosiva pionieristica di crescita, al mantenimento e all’aumento geografico e globale del loro business (causata anche da una sufficiente innovazione). Le maggior parte delle grandi aziende italiane rimaste attive sono di fatto diventate ‘estere’, avendo spostato in altri Paesi (anche solo europei) le loro capogruppo e comunque i consolidati dei loro fatturati.

La mancanza del loro contributo al Pil nazionale, delle loro tasse alle nostre entrate fiscali e la riduzione dei posti di lavoro spostati all’estero hanno avuto un deciso impatto negativo. Ben sappiamo che ciò è stato, ed è ancora, il risultato di politiche nazionali fiscali non favorevoli alle grandi aziende rispetto ad altri Paesi. Tali politiche sono state determinanti anche nel non essere riusciti ad avere le nuove multinazionali tecnologiche in Italia. Il loro apporto in termini di Pil, occupazione, sviluppo di ecosistemi innovativi e entrate fiscali sarebbe stato di grande aiuto.

A questo proposito, si veda il risultato di una politica completamente contraria alla nostra, adottata dall’Irlanda. In 30 anni gli irlandesi, partendo da una economia prevalentemente agricola e pastorale, hanno oggi un Pil pro capite e stipendi doppi rispetto ai nostri. Le mancate entrare fiscali per le facilitazioni a esse concesse sarebbero state abbondantemente compensate dalle entrate da Irpef dei dipendenti, dall’Iva dei loro acquisti e da tutta l’economia indotta. Il risultato di questa politica italiana è che numerose aziende italiane (private, ma anche a partecipazione statale) si sono spostate in Paesi europei a più bassa tassazione e, alla fine le abbiamo perse.

Purtroppo negli ultimi decenni non si sono neanche sviluppate nuove grandi aziende italiane. Ci sono però probabilmente anche altri motivi che lo spiegano. Va per esempio considerata l’attuale scarsa predisposizione dei nostri imprenditori alla crescita e al consolidamento delle loro aziende (risultano 36esimi al mondo in propensione al rischio). E infatti possiamo constatare che in molti di loro, quando raggiungono volumi e profitti interessanti, prevale la volontà di capitalizzare vendendo le loro aziende a proprietà straniere. In effetti poche di loro sono riuscite a crescere fino a dimensioni importanti e oramai le poche grandi aziende rimaste sono a partecipazione statale o operano in mercati in un qualche modo protetti. Abbiamo purtroppo anche perso aziende strategicamente importanti (nelle telecomunicazioni), come invece non hanno perso (anzi le stanno aumentando) Francia, Germania e Spagna.

Gli effetti dell’immobilismo italiano

Le grandi aziende sono fondamentali per lo sviluppo economico. Come già detto lo sono per i volumi di fatturato, e quindi di Pil, e lo sono per lo sviluppo dell’innovazione dei prodotti-servizi e, soprattutto, per l’evoluzione dei modelli di business. Sono anche fondamentali per tenere agganciate le nostre PMI ai trend e ai mercati globali e per lo sviluppo delle nuove competenze necessarie per competere (direttamente e nel proprio indotto, ma anche collaborando con le università). Visto che sono così indispensabili, occorre dunque trovare il modo di riaverle protagoniste nel nostro sistema economico.

A tal riguardo le leve possono essere di diversa natura. Semplicemente si potrebbero eliminare alcuni dei motivi della loro scomparsa, in particolare quelli fiscali. Inverosimile, per esempio, la scelta di alcuni Governi del passato nel non voler prendere atto che la maggior parte delle grandi aziende italiane lasciasse il nostro territorio proprio per motivi fiscali. Il voler rimanere per principio sulla posizione che ‘non è giusto che in alcuni Paesi europei ci sia un trattamento fiscale di favore per le imprese’ si è dimostrato un atteggiamento fortemente masochista: si riteneva, purtroppo, che non era l’Italia a doversi adattare alle logiche della globalizzazione, ma che il mondo avrebbe dovuto allinearsi ai nostri più giusti principi. Per decenni abbiamo chiesto inutilmente alla Comunità europea di attivarsi a riguardo, e continuiamo a farlo. Risultato? Praticamente nullo.

Purtroppo oggi non è probabilmente più possibile attivare facilitazioni fiscali come quelle usate dall’Irlanda, dall’Olanda e dal Lussemburgo. Ma qualcosa va fatto. Al solito noi cerchiamo però di farlo solo su ciò che comporta maggiori entrate fiscali di breve termine, quali per esempio la legge per le facilitazioni fiscali concesse ai ricchi stranieri, per attirarli a pagare un minimo di tasse in Italia. Non lo si fa, invece, purtroppo per le aziende e per ciò che può garantire potenziale di sviluppo del Pil. Qualcuno potrebbe obiettare che in realtà in passato (e anche ora) abbiamo avuto incentivazioni per insediamenti facilitati nel Sud. In realtà anche i motivi di tali facilitazioni erano più sociali che di aumento del Pil (rimediare all’arretratezza economico-sociale del Sud) e non di aumento della competitività e della capacità di Pil. È un approccio simile a quello del salario minimo (magari sacrosanto) che serve a limitare un problema di povertà e non ad aumentare la capacità di Pil.

La cosa certa è che nel Sud ci sono andate poche aziende e tra chi lo ha fatto la maggior parte aveva obiettivi di pura speculazione finanziaria (incamerare incentivi) e/o di appropriazione di know how di aziende preesistenti. Infatti poche di loro hanno poi mantenuto gli impegni occupazionali. Sarebbe andata ben diversamente se gli incentivi fossero stati dati per insediamenti al Nord. L’obiezione sarebbe quella che così facendo avremmo potuto aumentare la differenza Nord-Sud. Tale considerazione politica, tradotta in termini pragmatici, significherebbe che ‘pur di non aumentare la differenza tra aree geografiche, è meglio evitare di aiutare il Nord a crescere’. Ragionamento che si potrebbe applicare al tema della uguaglianza salariale contrattuale (prescindendo cioè dal diverso costo della vita).

Una nuova cultura per l’imprenditoria

Tornando alla possibilità di tassazione facilitata per lo sviluppo di nuovo business da parte di aziende straniere in Italia, essa potrebbe risultare penalizzante per le imprese già fiscalmente assoggettate al fisco italiano. Esse potrebbero trovarsi, infatti, in svantaggio competitivo. Azioni fiscali in tal senso dovrebbero quindi essere applicate anche alla crescita delle nostre imprese (non decurtando quindi i contributi fiscali a parità di volume) e comunque, per quanto riguarda insediamenti di multinazionali, dovrebbe essere concesse solo a quelle che possono portare know how innovativo e nuova occupazione. Ciò aiuterebbe anche a sviluppare tutto l’ecosistema di PMI italiane di cui si avvarrebbero per forniture  e partnership.

Qualcosa a riguardo della agevolazione fiscale per la crescita sia stato già attivato, ma per i soliti bassi motivi politici, tali iniziative sono spesso criticate, o comunque quasi ignorate, dalle opposizioni ideologiche di turno, impedendone una applicazione a maggior impatto. A tal riguardo occorrerebbe invece il supporto di tutte le forze politiche. Occorre, infatti, un minimo di massa critica affinché anche i buoni rimedi abbiano un impatto significativo.

Un’altra dimensione critica per il recupero di un trend positivo da parte delle nostre imprese è quello del ripristino e del potenziamento della capacità di innovazione. Anche il potenziale e la capacità di innovazione a livelli sufficienti per poter impattare sullo sviluppo del Pil sono però condizionati dalla presenza di grandi aziende capaci di svolgere il ruolo di motori degli ecosistemi delle PMI. Le puntuali evidenziazioni da parte della stampa di quanto sono innovative e eccellenti alcune nostre imprese è una narrazione non del tutto veritiera: di fatto non affrontiamo mai il vero problema della scarsa innovazione dei nostri prodotti-sevizi e in particolare dei loro modelli di business. Infatti, se siamo così innovativi, come mai non riusciamo ad aumentare i fatturati, e quindi il Pil, pur avendo un costo del lavoro inferiore a quello degli altri Paesi occidentali?

È ovvio che concausa di quanto sopra è anche la mancata evoluzione culturale dei nostri imprenditori, rimasti in business di nicchia o al traino di grandi aziende estere con relative scarse possibilità di capire cosa serve oggi sul mercato finale. Le poche aziende che sarebbero in grado di farlo rifuggono in buona parte le logiche di ricorso al finanziamento esterno (private equity, Borsa, ecc.) che consentirebbero loro di crescere velocemente. Se si perde tempo, il potenziale vantaggio competitivo oggi si esaurisce velocemente e se ne perde la potenzialità (siamo nel mondo dei “Transient competitive advantages”). Occorre la presa di consapevolezza che le grandi aziende sono importanti e dobbiamo trovare il modo di riaverle, agendo con diverse leve e su diverse dimensioni (da quella fiscale, a quella strategica… a quella culturale).

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Giorgio Merli

Giorgio Merli è autore di numerosi libri e articoli sul management pubblicati in Europa e negli Usa; è consulente di multinazionali e Governi, oltre che docente in diverse università in Italia e all’estero. È stato Country Leader di PWCC e di IBM Business Consulting Services

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