360 gradi: oltre la responsabilità sociale dell’impresa
La contrapposizione tra le visioni dell’impresa basate sul profitto e sull’interesse preminente degli azionisti (shareholder’s theory) rispetto a concezioni più sociali che riconoscono una molteplicità di interessi meritevoli di tutela (stakeholder’s theory) dura da decenni. Negli ultimi tempi la prospettiva inclusiva sta trovando un certo rilancio, in reazione alle conseguenze della crisi finanziaria del 2008, all’incremento delle disuguaglianze sociali e ultimamente anche all’emergenza mondiale del covid-19.
Il libro L’impresa a 360 gradi di Sarah Kaplan, Docente della Rotman School of Management dell’Università di Toronto, si distingue per un approccio pragmatico, teso a evidenziare come fini economici e sociali possano trovare – e trovino di fatto in esperienze aziendali reali – una combinazione dinamica. La trasformazione organizzativa ne costituisce la chiave di lettura fondamentale, insieme al concetto di trade-off, di gestione del naturale conflitto tra diversi ordini di obiettivi, esigenze e preoccupazioni.
L’impresa a 360 gradi non rinuncia ad affrontare e gestire le tensioni create dai trade-off che derivano dalla presenza di molteplici stakeholder, fra cui fornitori, dipendenti, consumatori e ambiente. Sulla base di un’analisi approfondita di due casi aziendali guida, Walmart e Nike, oltre che di altri e più ampi materiali di ricerca, Kaplan definisce un percorso che attraversa quattro distinte modalità di azione che riguardano i trade-off.
I quattro step per ottenere trade-off funzionali
Prima di tutto, occorre individuarli in base a un’analisi oggettiva del modello di business che faccia emergere con chiarezza le scelte, spesso compiute in assenza di consapevolezza, su “quali stakeholder privilegiare e quali trascurare”.
La seconda modalità porta a ripensare i trade-off. È la strada insita nell’interpretazione corrente e diffusa della responsabilità sociale dell’impresa (RSI), per esempio nella versione del ‘valore condiviso’ sostenuta dagli accdemici Michael Porter e Mark Kramer. Seguendo questo approccio, si riconosce che “rispondere ai bisogni di uno stakeholder può essere positivo anche per i profitti dell’impresa”, per tutta una serie di ragioni e anche perché può creare vantaggi competitivi. In questo modo però si entra in una logica di ‘giustificazione’, che resta interna a un discorso di convenienza e quindi limita l’azione verso direzioni più radicali nei casi in cui non sia possibile sanare i trade-off attraverso soluzioni win-win.
Innovare a partire da questi è invece la terza modalità, quella che fa emergere le possibilità trasformative dell’impresa a 360 gradi, attraverso nuove tecnologie, nuovi processi, nuovi modi di fare l’impresa. Qui gli esempi di Walmart e Nike sono effettivamente paradigmatici.
Entrambe queste grandi imprese americane non sono state per lungo tempo considerate esponenti significative della RSI; al contrario, si imputava alla prima di addossare al personale (bassi salari, limitazione dei diritti sindacali, ecc.) gli oneri di un modello di business che privilegiava la competitività dei prezzi sul mercato; e alla seconda di utilizzare forme di esternalizzazione produttiva in Paesi terzi, comportanti condizioni di lavoro – per sicurezza, salari e politiche del personale – inaccettabili in economie evolute.
Tuttavia, Walmart e Nike hanno saputo recuperare questo sbilanciamento a danno dei lavoratori, operando con costanza e determinazione nel ridefinire in profondità le routine organizzative di base lungo la filiera distributiva e la catena delle produzioni esternalizzate. Hanno riequilibrato il trade-off tra gli interessi di differenti stakeholder grazie all’innovazione, e quindi a un lavoro di lungo periodo con forte contenuto progettuale.
Kaplan però non si accontenta di questo e prospetta una quarta modalità, definita come “prosperare nei trade-off”. La Modalità 4 è necessaria quando il conflitto resta in qualche modo insanabile, quando agire nell’interesse di stakeholder diversi dagli azionisti può danneggiare questi ultimi e viceversa. In questi casi le imprese devono capire come funzionare con la tensione piuttosto che come liberarsene.
In sostanza, si prende atto che più avanzati equilibri tra le esigenze di diversi stakeholder non sono raggiungibili nell’immediato; ma non si rinuncia a considerare la questione, attivando misure come sperimentazioni in contesti limitati, o progetti pilota. Gli esperimenti, anche in caso di fallimento nei laboratori o sui mercati, possono essere fonte di apprendimento e piattaforme di lancio verso ulteriori sperimentazioni.
Andare oltre la routine di un sistema organizzato
Nell’insieme, il libro offre un approccio fresco e stimolante su un tema che spesso è affrontato in modo eccessivamente esortativo. Il materiale empirico presentato a supporto della tesi di fondo richiederebbe certo una valutazione critica approfondita; la trattazione dei due casi principali, pur occupando uno spazio rilevante, fatica a superare il racconto di una serie di situazioni e di episodi specifici per assumere un profilo documentale più solido. Riemergono quindi i limiti di tutta una letteratura incentrata su presunti casi aziendali esemplari da In search of excellence (Peters e Waterman, 1982), in poi.
L’idea di uno sviluppo dinamico ed evolutivo delle qualità di un sistema organizzato, a partire da istanze inizialmente contraddittorie è del resto ormai pacificamente accolta dalla letteratura internazionale. Questo lavoro di Kaplan segnala l’opportunità di andare oltre, esplorando in modo più analitico le diverse modalità attraverso cui negli strati profondi delle organizzazioni le routine vengono riprogettate e adattate per gestire la forza trasformativa di obiettivi concorrenti e anche confliggenti.
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