Carriere e processi di promozioni, i danni dello spoil system in azienda
“Il valore di una persona nelle organizzazioni è misurato dalla sua carriera”. L’affermazione appartiene di routine alla retorica manageriale. Se non lo si dice è certo che lo si pensa. È come un mantra in grado di qualificare da subito chi è dentro e chi è fuori da una mitologia vincente che in azienda guida giudizi e apprezzamenti.
Identificare la persona con la sua carriera è una semplificazione comoda: fa parte di quei modelli di razionalità così esibita – in voga da quando la gerarchia ha assunto un valore assoluto – da risultare persino commovente nel suo tributare una devozione assoluta alla vulgata del mestiere e ai suoi riti. Se sei lì è perché ce l’hai fatta e il giudizio che consideri legittimo sul tuo lavoro è solo quello che fa riferimento al grado conquistato.
L’equiparazione è una delle tante technicality adottate per liberare il management al vertice da ogni sovraccarico di discussioni. La carriera, più che un percorso, diventa così la codificazione del risultato, liberando chi sulle carriere costruisce la sua squadra dal dover perdere tempo a giustificare scelte e a confrontarsi con chi avrebbe qualcosa da ridire: moltiplicare le ipotesi, le variabili e i distinguo genera dubbi, e il dubbio è sempre una cattiva frequentazione che il potere tende a rifuggire. Fa perdere tempo, consente intromissioni di chi non dovrebbe avere voce e toglie autorevolezza.
Il capo, per definizione, non ha tentennamenti nel decidere; ne va del suo prestigio. È così che il modello, nella sua semplificazione – carriera uguale valore – impone il criterio cui adeguarsi nell’attribuire gli incarichi e la pratica aziendale finisce poi con il legittimarlo per continuità. In realtà, se si cerca di smontare pezzo a pezzo l’assioma da cui si è partiti, ci si imbatte quasi sempre in non poche contraddizioni. E ciononostante a molti questa scelta appare funzionale.
Analizzare le persone nella loro totalità
Si dice: quando si arriva a definire chi ha diritto alla promozione per un livello superiore, non si può non ricorrere a un ranking di qualche tipo che faccia giustizia della folla dei pretendenti. Questo stabilisce la regola ufficiale nella sua semplificazione e aiuta a legittimare quasi sempre le scelte che il vertice fa con un occhio almeno alla compatibilità – mai esplicitata, per altro – del ‘cresimando’ con i valori di chi detiene il potere.
Anche a voler prescindere, però, dalla qualificazione un po’ più articolata di cosa si intenda per ‘valore’, siamo sicuri che in una persona questo sia misurabile correttamente considerando solo una parte – seppure importante – della sua vita? Perché è indubbio che il lavoro rappresenta un ‘di cui’ rilevante dell’esistenza complessiva di una persona, quanto meno in termini di tempo assorbito, ma è altrettanto vero che non esaurisce la totalità della sua esperienza, dei suoi interessi e delle capacità accumulate.
Sarebbe come a dire che ci sono saperi, competenze, comportamenti e relazioni che, apprese ed esercitate in altri contesti rispetto a quello del lavoro, non aggiungono nulla di significativo a quello che l’azienda prende in considerazione e sanziona con la carriera. Le identità personali, pur in configurazioni variabili e plurime, sono difficilmente ‘compartimentabili’, rendendo la persona un individuo che è se stesso ovunque agisca, al massimo esercitando il discernimento che lo porta ad adattarsi in forme diverse ai contesti diversi a cui è esposto.
Giudicare la parte per il tutto conduce spesso a errori di valutazione che penalizzano quanti hanno una vita ricca anche fuori dall’impresa. Senza contare a quanta ridondanza di risorse rinuncia l’organizzazione nel momento stesso in cui, sempre più orientata a snellire i suoi organici con l’espulsione di dipendenti, magari eccedenti l’uso quotidiano, finisce per privarsi di competenze più ‘larghe’. Esattamente quelle che verrebbero utili oggi, che tutto è preda di un movimento così accelerato e ricco di sorprese da richiedere una dotazione di capacità, di interessi e di sensibilità multiple, sempre più variegate.
La riduzione delle variabili prese in considerazione propone, dunque, modelli di successo professionale sempre più standardizzati, frutto di scuole masterizzanti che esaltano il metodo e gli strumenti e che officiano le divinità del numero e, magari, il potere salvifico dell’algoritmo. Ma, se si scava un poco, si capisce che questa ripulitura dei profili eligibili impoverisce molto la qualità degli eletti, che poco o quasi sanno di cosa sia più giusto pensare, come emozionarsi per capire, quanto uscire da sé per confrontarsi e non sbagliare in solitudine. Ciò che è più propriamente ‘umano’ è fuori dal radar della valutazione.
Possiamo anche supporre che la carriera contenga indicazioni utili, seppure sempre approssimative, per arrivare ad avere una rappresentazione del livello di performance realizzato dalla persona, con il riconoscimento correlato dei meriti. Resterebbero quanto meno da analizzare le variabili che concorrono alla valutazione delle performance e che accreditano promozioni e avanzamenti. I contesti, per esempio, in cui vengono espresse e prendono forma, i valori che qualificano la specificità delle singole organizzazioni nel loro metro di valutazione, le anomalie intervenienti, e così via.
L’articolo completo è pubblicato nel numero di Novembre-Dicembre 2018 di Sviluppo&Organizzazione.
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Pier Luigi Celli è nato a Verucchio (Rimini) l’8 luglio 1942. Sposato con Marina, ha due figli. Laureatosi in Sociologia all’Università di Trento, ha maturato significative esperienze come Responsabile della Gestione, Organizzazione e Formazione delle Risorse Umane in grandi gruppi, quali Eni, Rai, Omnitel, Olivetti ed Enel. Il bagaglio manageriale acquisito nella gestione di grandi aziende con business così complessi e diversificati, gli ha permesso nel 1998 di tornare in Rai come Direttore Generale.
Dopo aver ricoperto ruoli fondamentali nello startup di nuove attività per la telefonia mobile – Wind e Omnitel – è stato, per un breve periodo, alla guida di Ipse 2000, società di telefonia per l’Umts. Dal 2002 ad aprile 2005 ha lavorato in Unicredito Italiano, come Responsabile della Direzione Corporate Identity, con la missione di dare un’identità a un gruppo che negli ultimi anni ha aggregato sette realtà in Italia e cinque all’estero.
Da maggio 2005 a luglio 2013 ha lavorato all’Università Luiss Guido Carli come Direttore Generale e dal 2013 a giugno 2014 in Unipol come Senior Advisor Corporate Identity, Comunicazione
e Relazioni Istituzionali. Ha ricoperto la carica di Presidente dell’Enit da maggio 2012 a giugno 2014 e dal 2014 al 2016 ha ricoperto in Poste Italiane il ruolo di Senior Advisor dell’Amministratore Delegato.
Oggi è Presidente di Sensemakers, società che offre servizi di consulenza e prodotti in ambito digital basati su Big data e Analytics.
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