Una nuova governance? Solo con il contributo attivo di tutti gli stakeholder
È certamente noto a chi legge che ad agosto 2019 la Business Roundtable, associazione di cui sono membri i Chief Executive Officer (CEO) delle principali società statunitensi, ha reso pubblico uno Statement of purpose, una Dichiarazione di intenti.
I CEO si impegnano a “offrire valore ai clienti”, “investire nei dipendenti”, “trattare in modo equo ed etico con i fornitori”, “supportare le comunità in cui si lavora”. Qualcuno, da noi come negli Stati Uniti, accoglie queste affermazioni di principio come passaggio storico, come segnale di profonda discontinuità rispetto al passato. Dove stia questa discontinuità, però, a guardar bene, non è così chiaro.
Ciò di cui parlano i CEO della Business Roundtable è argomento della teoria degli stakeholder –possiamo dire in italiano portatori di interessi– resa pubblica verso l’inizio degli Anni 70 del XX secolo, proprio quando iniziavano le riunioni del think thank Usa. Nessuna impresa può veramente prosperare se un interesse prevale eccessivamente sugli altri, schiacciandoli.
Eppure in tutti questi anni i CEO hanno operato al servizio di un solo stakeholder: lo shareholder o azionista. Che ora dichiarino che gli interessi degli azionisti non devono essere collocati al di sopra di tutto il resto appare un passo avanti. Tuttavia dobbiamo chiederci se non si tratti di una mera affermazione di principio.
Dire che è essenziale per il successo di ogni impresa il contributo di tutti gli attori sociali –dipendenti, clienti e fornitori– è dire l’ovvio. Dire che l’azienda è una costruzione comune e che esiste solo se c’è una comunione di intenti è affermare cosa nota a ogni lavoratore, manager e cittadino. Gli stessi CEO della Business Roundtable, già a partire dagli Anni 70, si sono espressi varie volte a favore della Corporate Social Responsibility, che consiste appunto nel prendere in considerazione i diversi interessi in gioco. Cosa c’è di diverso ora? Ben poco o forse nulla.
Il CEO è nominato e pagato dagli azionisti. Anzi, è quasi sempre un azionista lui stesso, perché una parte della sua remunerazione passa sotto forma di azioni della società. E addirittura in qualche caso è l’azionista di maggioranza: ne è un esempio Jeff Bezos di Amazon, che è anche uno dei membri della Business Roundtable Se leggiamo lo Statement, notiamo che le belle affermazioni di principio non sono accompagnate da nessun impegno dei CEO a far accettare agli azionisti una riduzione della loro fetta della torta.
Servirebbe un radicale mutamento nella governance
Non viene messo in discussione insomma il fatto fondamentale: sono gli azionisti a decidere come dividere la torta. Dunque, più che plaudire a quanto proposto, prendendolo per un forte e salutare nuovo vento che soffia sulle imprese e la loro gestione, è opportuno chiedersi se si tratti di una mera strategia comunicativa: nel momento in cui cresce un’onda di critica sociale contro certe eccessive remunerazioni dei CEO e contro la loro sudditanza rispetto alle aspettative dello shareholder dominante (l’azionista), i top manager fanno propria l’argomentazione, dichiarandosi a favore degli interessi di lavoratori, clienti, fornitori, eccetera. Abbagliati dalla dichiarazione, finiamo per crederci, senza notare che non contiene nessun vero impegno.
Se i CEO avessero voluto essere veramente discontinui, avrebbero dovuto compiere un atto coraggioso, dal quale si sono tenuti ben lontani. Avrebbero dovuto impegnarsi per un radicale mutamento nella governance, proponendo che a indicare loro strategie e obiettivi e a definire la loro remunerazioni siano non solo gli azionisti, ma, in parti uguali, tutti gli stakeholder citati nello Statement: azionisti, lavoratori, clienti, fornitori e comunità.
Che una simile via –coinvolgere di tutti gli stakeholder nel governo dell’impresa– sia praticabile, resta da vedere. Resta da vedere anche se e come sia possibile costruire meccanismi efficaci, tali per cui la strategia emersa come punto di incontro tra interessi diversi non sia un compromesso al ribasso. E comunque, questa sì sarebbe una storica discontinuità. Non lo è, invece, lo Statement. Le proposte dei CEO resteranno quindi vaghi indirizzi, che l’azionista potrà in ogni momento decidere di disattendere.
Un ultimo commento è doveroso. Forse il favore con il quale lo Statement è stato accolto dipende da questo: fa comodo pensare che di fronte all’impellente bisogno, da tutti percepito, di business più sostenibili, più aperti al futuro e più equi, siano i CEO a farsi carico del cambiamento. Non è così: un ‘nuovo ordine’ nel business si affermerà solo se ogni manager, lavoratore e attore sociale contribuiranno fattivamente, assumendosi responsabilità personali.
Francesco Varanini è Direttore e fondatore della rivista Persone&Conoscenze, edita dalla casa editrice ESTE. Ha lavorato per quattro anni in America Latina come antropologo. Quindi per quasi 15 anni presso una grande azienda, dove ha ricoperto posizioni di responsabilità nell’area del Personale, dell’Organizzazione, dell’Information Technology e del Marketing. Successivamente è stato co-fondatore e amministratore delegato del settimanale Internazionale.
Da oltre 20 anni è consulente e formatore, si occupa in particolar modo di cambiamento culturale e tecnologico. Ha insegnato per 12 anni presso il corso di laurea in Informatica Umanistica dell’Università di Pisa e ha tenuto cicli di seminari presso l’Università di Udine.
Tra i suoi libri, ricordiamo: Romanzi per i manager, Il Principe di Condé (Edizioni ESTE), Macchine per pensare.
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