Perché fingiamo di non vedere il debito pubblico
C’è una via d’uscita per l’Italia dal debito pubblico che la opprime, facendo ristagnare il Prodotto interno lordo? È un bene o un male che l’Unione europea abbia sostenuto il nostro Paese nel momento della crisi, risparmiandole la procedura per ‘debito eccessivo’? La risposta non è scontata se tre economisti, con ideologie molto differenti (un marxista, un neo-keynesiano, una sostenitrice dell’austerity), si sono trovati a Bologna per discuterne, fornendo ognuno risposte diverse.
Emiliano Brancaccio dell’Università del Sannio, Veronica De Romanis della Luiss e Lorenzo Forni dell’Università di Padova concordano però su un aspetto: il debito pubblico è un grosso problema e un grave fattore di fragilità e rischio per il nostro Paese.
D’altra parte, il rapporto debito-Pil continua a crescere da 50 anni, con una piccola tregua negli Anni 90: dal 37% del 1970 siamo giunti al 135% del 2014 e da allora ci manteniamo stabili su questa cifra, indipendentemente dal ‘colore’ del Governo e dalle politiche di austerità più o meno severa applicate. Le prospettive di rientro sono affidate a un futuro precario, anche perché ogni Esecutivo teme più l’impopolarità del debito stesso. A fine 2019 il debito pubblico potrebbe raggiungere i 2.420 miliardi e il Pil, allo stesso tempo, ristagna: ogni anno quasi il 4% di esso, pari al 10% delle entrate fiscali, è destinato al rimborso degli interessi, il che paralizza di fatto decisioni più ‘coraggiose’ nelle politiche fiscali.
Vie d’uscita dal peso del debito pubblico
C’è dunque una soluzione? Difficile a dirsi. Certamente non possiamo procrastinare il problema alle generazioni future, perché noi stessi ne sentiamo il peso schiacciante. Parlare di debito fa sempre più paura alla politica, per questo, ormai, si usano termini edulcorati come “flessibilità”, ma la sostanza non cambia, come ha osservato De Romanis: i nostri politici sembrano ignorare il problema, evitando di parlarne.
“Flessibilità”, infatti, significa chiedere all’Europa più tempo per aumentare il debito, non per risanarlo, ma il vocabolo ha in sé un’idea di vittoria, più che di sconfitta, dunque fa gioco ai decisori. La realtà è che, anche aumentando il debito, l’Italia non cresce e questo è un dato di fatto che smentisce l’idea che la politica ha dell’economia del nostro Paese. Negli ultimi anni si sono succeduti Governi che hanno introdotto nuovi balzelli, altri che hanno inserito poderose previsioni di privatizzazioni per abbassare il debito a bilancio (e, bisogna dire, l’Ue su questo ha sempre chiuso un occhio, anche quando si trattava di cifre inverosimili, come ha osservato Lorenzo Forni), altri ancora che hanno puntato sulla spending review.
A volte toccare il fondo, come è successo alla Grecia o al Portogallo può aiutare a risalire: l’Italia si mantiene in un pericolante equilibrio che non incentiva consumi né investimenti. Sempre secondo Forni, sostenitore del “sentiero stretto” teorizzato dall’ex Ministro all’Economia Pier Carlo Padoan, il nostro Paese ha una sola sicurezza, che è la ricchezza privata. È quella delle aziende, delle tante PMI che compongono il nostro tessuto industriale, dei semplici cittadini. Ma, va da sé, si tratta di una certezza che andrebbe intaccata solo di fronte a casi estremi, non certo come prassi.
Quello che maggiormente evidenziano gli economisti, in particolare De Romanis, che è una sostenitrice dell’austerità, è il fatto che l’Italia spende tanto e spende male: che serva, dunque, un’austerità di spese, invece di un’austerità di tasse? Forse si può trovare una virtuosa via di mezzo, anche guardando cosa fanno i nostri ‘vicini di casa’ in Europa. Infatti, come diceva Carlo Azeglio Ciampi, l’Ue è un grande condominio: le scelte del singolo ricadono su tutti.
Purtroppo, i Governi presenti nei vari Paesi Ue hanno tutti la tendenza a spendere anche i soldi delle generazioni future: allora, per dirla con Mario Monti, ci vorrebbe “una Greta del debito pubblico”, che sensibilizzi i decisori nei confronti di chi verrà dopo: secondo Brancaccio, infatti, pagheremo prima il prezzo dei problemi finanziari di quelli ambientali. In ogni caso, tra le possibili soluzioni, l’austerity non è certamente la preferita dagli italiani.
La via d’uscita non è scontata né univoca. Se per alcuni la crescita delle importazioni concomitante alla crisi è un fattore di rischio, così, per altri, lo è il mancato accesso al fondo salva Stati, anche se tale adesione implicherebbe un ‘accompagnamento amministrativo’ troppo ingombrante per il Paese. E così, accompagnati da questo ragionamento dell’economista Brancaccio, si torna sempre a Karl Marx, che solo nel contrasto alle diseguaglianze, ai disequilibri salariali, alla disoccupazione, alla povertà vede la via d’uscita.
La crisi dei paradigmi del Novecento
I paradigmi del Novecento, in effetti, non godono di buona salute: i modelli economici li fanno (anche) le imprese e, suggeriscono gli economisti, basta notare come gli scambi commerciali siano ormai quasi tutti fra Paesi Ue ed extra Ue, non interni: si tratta di un tradimento degli scopi iniziali e di un contraccolpo dovuto alle sorti del ‘secolo breve’. Una delle alternative possibili, proveniente dal mondo delle imprese, potrebbe essere il ricorso alla cooperazione. Essa funziona solo se la mutualità non viene intesa più soltanto come un servizio reso ai soci per un auto-interesse, ma se prevede vera solidarietà.
E così, fra corsi e risorsi storici, ma anche economici, possiamo dire che ‘nessuno si salva da solo’: alcuni principi macroeconomici diventano comprensibili, paradossalmente, solo se si esce dalla teoria per applicarli nella pratica. Se, dunque, fatichiamo così tanto a trovare o, forse, a ricordare ciò che ci unisce, senza il senso di comunità che è stato messo anche nel nome stesso che abbiamo dato all’Unione degli Stati Europei, siamo destinati a fallire. E inaspettatamente, oggi, diversi economisti, anche marxisti, ricorrono a citazioni di Papa Francesco, per suggerire soluzioni di uscita dalla crisi. Ora che l’ascensore sociale è rotto, occorre trovare un modello che tenga insieme sostenibilità e produttività. La sfida è diventare ‘imprenditori della carità’. Funzionerà meglio dell’austerity? Se anche gli economisti di formazione marxista citano il Papa come esempio, c’è da crederci.
Bolognese, giornalista dal 2012, Chiara Pazzaglia ha sempre fatto della scrittura un mestiere. Laureata in Filosofia con il massimo dei voti all’Alma Mater Studiorum – Università degli Studi di Bologna, Baccelliera presso l’Università San Tommaso D’Aquino di Roma, ha all’attivo numerosi master e corsi di specializzazione, tra cui quello in Fundraising conseguito a Forlì e quello in Leadership femminile al Pontificio Ateneo Regina Apostolorum. Corrispondente per Bologna del quotidiano Avvenire, ricopre il ruolo di addetta stampa presso le Acli provinciali di Bologna, ente di Terzo Settore in cui riveste anche incarichi associativi. Ha pubblicato due libri per la casa editrice Franco Angeli, sul tema delle migrazioni e della sociologia del lavoro. Collabora con diverse testate nazionali, per cui si occupa specialmente di economia, di welfare, di lavoro e di politica.
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