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Welfare aziendale, la sostenibilità oltre il profitto

Era il 2016 quando Luca Pesenti, Professore Associato di Sociologia generale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, scrisse il volume Il welfare in azienda – imprese ‘smart’ e benessere dei lavoratori (Vita e pensiero, 20192). Era l’anno cruciale delle novità fiscali apportate dalla legge di Stabilità.

Da allora la norma non è più cambiata, in compenso il welfare aziendale ha fatto passi da gigante. I provider sono diventati 92, dunque è lecito porsi il problema di quanti di essi sopravvivrebbero se fossero tolti dal legislatore i benefici fiscali. Soprattutto, occorre porsi il problema di quante aziende manterrebbero intatte le proprie misure di welfare, qualora non ne ricavassero più benefici.

La sostenibilità del welfare è dunque legata a doppio filo da un lato a un necessario cambiamento culturale, dall’altro al tema della qualità sociale. È questo argomento che Pesenti indaga nella riedizione del libro, in libreria da inizio dicembre 2019.

Colmare il welfare digital divide

Finora si è pensato troppo di frequente che garantire ampia libertà di scelta ai lavoratori fosse automaticamente sinonimo di qualità. Invece, perché il welfare impatti in maniera positiva sul futuro del singolo, ma anche della comunità in cui è inserito, occorre accompagnare il processo decisionale dei beneficiari.

Infatti esiste, in primo luogo, un ‘doppio rischio’ di digital divide nella scelta della destinazione del welfare: non è possibile dare per scontato che lavoratori e lavoratrici trovino, nelle diverse piattaforme utilizzate, uno strumento idoneo a rispondere ai loro bisogni, per scarsa conoscenza del tema da un lato, o per difficoltà nell’utilizzo dello strumento dall’altro.

Una recente ricerca (il secondo rapporto annuale Censis-Eudaimon sul welfare aziendale) ha fatto emergere come, tra i lavoratori con mansioni o titoli di studio non elevati, il tema del welfare resti semi sconosciuto: questo deficit di conoscenza specifica corre il rischio di diventare un gap di conoscenza sui propri bisogni in prospettiva. Questo gradino è più evidente tra i giovani e i bassi titoli di studio: non è un caso che proprio a tali categorie difetti la lungimiranza.

Esistono aziende virtuose, che cercano di colmare questo dislivello: è il caso, per esempio, del gruppo Zobele, che ha distaccato una persona della funzione Risorse Umane con lo specifico obiettivo di re-intermediare la scelta dei lavoratori rispetto al piano di welfare. Una sorta di assistente sociale, più che un welfare manager, che accompagna i dipendenti nelle proprie decisioni, cercando di dare loro una visione di futuro.

Questo accompagnamento potrebbe evidentemente attirare critiche di paternalismo da parte dell’azienda. Pur riconoscendo tale eventualità, Pesenti ritiene tuttavia che sussistano “formule non invasive sulla libertà di scelta delle persone, che possano indirizzarle nel loro interesse”.

In questo è possibile individuare anche un nuovo ruolo per il sindacato, “che, come accade già in alcuni casi, potrebbe andare più in profondità nei temi che riguardano il welfare, intervenendo già nella profilatura dei beneficiari, sostenendo così le aziende nello sforzo di conoscere meglio i propri dipendenti, sino a individuare le scelte più giuste per persone specifiche, nelle circostanze date”.

Il ritorno al welfare sociale

Se consideriamo il welfare aziendale da un punto di vista che non sia quello delle imprese, dei ‘corpi intermedi’, dei fornitori, dei beneficiari, ma dello Stato, la prospettiva muta ancora. Fu l’allora Ministro Tiziano Treu, oggi Presidente del Cnel, il primo a porsi il problema della definizione del welfare aziendale, perché, all’epoca, cominciavano a sorgere dubbi sulla legittimità della normativa fiscale favorevole che lo accompagnava. Fu lui a mettere in discussione l’uso dei welfare benefit a contenuto ricreativo.

È chiaro che si pone, per il futuro, un tema di sostenibilità. La parola chiave è quindi “sociale”: il welfare è sociale o è altro: “Se non lo è, se non risponde a esigenze legate ai temi della salute, della conciliazione dei tempi di lavoro e vita, dell’educazione, del sostegno al reddito, è una cosa differente. Si possono trovare altri nomi, altre definizioni, ma il welfare deve avere una funzione prima di tutto sociale. E nel fare questo deve al contempo poter tenere assieme le generazioni, perché la coesione sociale è fondamentale per il benessere di una comunità”.

Chiaramente il compromesso è lecito. Si possono inserire i benefit favoriti dai giovani, ma poi essi vanno aiutati nella comprensione di tale strumento e accompagnati a cambiare prospettiva: in questa fase storica, le giovani generazioni sono segnate dal presentismo, sia per tipicità della loro età sia per dimensione culturale generazionale, dunque vanno aiutate ad ampliare l’orizzonte temporale.

Il welfare, quindi, va re-intermediato. Questo perché, tra qualche anno, non ci saranno più le risorse per sostenere le pensioni: la previdenza complementare non si è sviluppata quanto ci si aspettava e tra 15, 20 anni inizierà lo tsunami. “Occorre capire che il tema dei versamenti previdenziali volontari nei fondi non è un problema privato, ma un’urgenza pubblica”, dice Pesenti.

Verso il principio della ripartizione delle risorse

Una soluzione potrebbe essere quella di differenziare i benefici fiscali a seconda della destinazione delle risorse: “Se le aziende defiscalizzano tutto, si perde la possibilità di un indirizzo possibile verso finalità sociali e dunque manca riflessività sul problema della destinazione di risorse che a tutti gli effetti sarebbero pubbliche”.

È chiaro che anche le aziende devono trovare un incentivo a farlo: “Educazione, sanità, pensione, cura, conciliazione dei tempi lavoro e vita dovrebbero avere per tutti più appeal rispetto ai benefit più voluttuari”. Ma anche una adeguata cultura aziendale potrebbe aiutare in questa direzione: “Si può trovare un equilibrio nella diversificazione dell’offerta, per esempio introducendo differenziali nella composizione del budget di welfare disponibile, non calcolati soltanto in base alle Ral, ma che guardino ai carichi di cura”.

Ci sono aziende che applicano già questo principio di ripartizione delle risorse, con responsabilità sociale, perché assumono come parametro non l’individuo, ma l’individuo nelle sue relazioni costitutive, tenuto conto anche del fatto che, in Italia, le tutele sono ancora ampiamente ancorate al posto di lavoro, dunque si perdono rimanendo disoccupati.

Infine, parlando di qualità sociale del welfare non si può trascurare il ruolo dei provider, che nel 2019 sono diventati 14 in più del 2018, e servono un mercato di circa 19mila aziende: “Non possiamo pensare che vendano un prodotto ‘neutro’. Non trattano un bene commerciale, ma un ‘bene comune’, tutelato addirittura dallo Stato” ricorda Pesenti.

Dunque il criterio qualitativo sarà fondamentale per stabilirne la sopravvivenza, qualora il Legislatore, nei prossimi anni decidesse di togliere i benefici fiscali. Pesenti lo giudica improbabile, almeno nella totalità del beneficio. Ma se mai dovesse accadere, anche solo un ridimensionamento, occorrerà valutare la reazione delle aziende: solo se il welfare sarà entrato nella logica del benessere organizzativo, allora, qualunque sarà la decisione di chi governa, la bolla non scoppierà.

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Chiara Pazzaglia

Bolognese, giornalista dal 2012, Chiara Pazzaglia ha sempre fatto della scrittura un mestiere. Laureata in Filosofia con il massimo dei voti all’Alma Mater Studiorum – Università degli Studi di Bologna, Baccelliera presso l’Università San Tommaso D’Aquino di Roma, ha all’attivo numerosi master e corsi di specializzazione, tra cui quello in Fundraising conseguito a Forlì e quello in Leadership femminile al Pontificio Ateneo Regina Apostolorum. Corrispondente per Bologna del quotidiano Avvenire, ricopre il ruolo di addetta stampa presso le Acli provinciali di Bologna, ente di Terzo Settore in cui riveste anche incarichi associativi. Ha pubblicato due libri per la casa editrice Franco Angeli, sul tema delle migrazioni e della sociologia del lavoro. Collabora con diverse testate nazionali, per cui si occupa specialmente di economia, di welfare, di lavoro e di politica.

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