Dalla formazione apparente alla formazione inesistente
Perché si fa formazione? Per confermare o per trasgredire l’esistente? Si agisce per creare un mondo nuovo o per conformare quello esistente ai regimi di verità riconosciuti? Non si può celare che, quando uno di noi, cercò di ricostruire una cronaca della formazione manageriale in Italia, in fondo aveva un’aspettativa: che ci fossero le condizioni per transitare da quella che il professor Bruno Maggi aveva definito la ‘formazione apparente’ a una più specifica della vita organizzativa, per l’apprendimento e la conoscenza nelle imprese.
La tensione inquieta dello psicologo Giuseppe Varchetta si era espressa in un frenetico lavoro comune per la compilazione di una mappa, su un foglio A4, delle correnti e delle persone che, in Italia, avevano fatto formazione in quei 50 anni. Con la fidata matita color senape, tenuta rigorosamente tra l’indice e il medio, Varchetta lasciava tracce spesse su quel foglio, in cui si riuscì riportare tutto, calcando sulla punta larga e morbida.
Le aspettative crescevano, mentre si continuava a scrivere capitoli e ad ascoltare persone. Fu di particolare illuminazione l’incontro con l’autrice Mirella Ducceschi, nella sua residenza di Forte dei Marmi. Un tuffo negli Anni 40 e 50 del XX secolo, con tutti gli entusiasmi e le speranze della ricostruzione, ma anche con le critiche agli imperanti modelli americani nella formazione.
Eppure, i cimeli di quella casa, a pensarci oggi, sapevano già di qualcosa che non avrebbe tenuto nel tempo; che non avrebbe partorito un’evoluzione duratura; che non si sarebbe consolidato scientificamente; che si sarebbe dissolto e sbrindellato in rigagnoli spesso irriconoscibili e consumistici. Oggi, che la formazione mostra di essere divenuta easy&fast al punto da sembrare inesistente, si aggirano nelle attività cosiddette formative tali e tante formule provvisorie e passeggere, da disorientare anche una bussola.
Trasgressione e apprendimenti innovativi
Nell’esperienza importante di ogni vita, ci sono le regole e l’ordine, il regime di verità a cui ognuno si affida e la messa in discussione, la discontinuità rispetto a quelle regole e a quell’ordine. Il limite di quelle direttive esiste in quanto trasgredibile e si trova alla temperatura della sua messa in discussione. Rintracciare l’esatta linea di demarcazione tra il consueto, il consolidato e il suo superamento, è un compito impossibile.
Esistiamo nella tensione tra l’ordine necessario e la nostra propensione a non coincidere mai con quell’ordine e con quello che siamo già. Il permesso e l’interdetto sono parte dello stesso processo inarrestabile. Esistiamo in quanto abitiamo lo spazio, il margine della continua ricerca di noi, dell’elaborazione della mancanza e di ciò che desideriamo possibile.
L’impossibilità di una definizione immutabile di noi istituisce, di fatto, la nostra modalità di essere e di stare al mondo. La formazione riguarda la creazione di una forma –una delle infinite possibili– di noi, delle relazioni e dell’organizzazione della nostra esistenza.
Se lo spazio di noi è riscontrabile sia nell’esistente sia nel possibile, la formazione dovrebbe agire come sostegno all’elaborazione dei nostri modi di stare in quello spazio, di essere quello stesso spazio. Tutte le volte che la formazione si –e ci– consegna alla conferma di quell’essere e dei modi di abitare quello spazio, sta fallendo il proprio compito.
Quando, invece, sollecita e sostiene la tensione a cercare e ad accedere all’inedito, all’oltre, alla messa in discussione dell’esistente, alla discontinuità, alla scoperta di sé e del possibile, nella vita relazionale e istituzionale, sta almeno in parte svolgendo il suo compito.
Simbolico, immaginario e reale non solo si mescolano, ma si affermano e si negano l’un l’altro. Ciò che si desidera e ciò che è motivo di soddisfazione convivono sempre, in una costante violazione dei confini. È quella violazione che conta e le migrazioni tra le prevalenze.
Mentre le migrazioni si esprimono, si può intervenire a sostenerne l’espressione e a orientarla verso ulteriori domini di senso, cercando e ricercando come esprimersi senza tradirsi e annullarsi. Si può, come sostiene il filosofo Ludwig Wittgenstein, intervenire per sostenere la possibilità di aggiungere pioli alla scala, durante l’ascesa della stessa.
“Ho scritto un libro sulla trasgressione per mostrare che la trasgressione… non esiste!”, sostiene la psicoanalista Silvia Lippi, indicando così il modo di essere della stessa. Si tratta di un movimento, non di uno stato. Non esiste come data per certa, non è una cosa né uno stato di cose, non è un effetto delle combinazioni delle forze in gioco: “Secondo Bataille, ogni atto di trasgressione afferma anche ciò che nega, e Lacan, l’abbiamo visto, dice che la trasgressione è come una porta socchiusa, ossia una soglia, un limite e non un superamento già compiuto”.
L’articolo integrale è pubblicato sul numero di Novembre 2019 di Persone&Conoscenze.
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