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Il nuovo riordino del sistema previdenziale

Dopo qualche primo intervento introdotto nella legge di Bilancio approvata a dicembre 2019 (rinnovo di un anno di opzione donna, proroga a tutto il 2020 dell’Ape sociale, parziale intervento sulla perequazione), il Governo è ripartito nel 2020 approfondendo il ‘come’ apportare ulteriori opportuni correttivi al nostro sistema previdenziale per renderlo – è quanto è stato dichiarato – più equo e sostenibile.

Il metodo scelto è quello concertativo, in versione ‘4.0’, attraverso il confronto con i sindacati individuando in modo condiviso i temi da affrontare e le priorità. La premessa posta sia dall’Esecutivo sia dalle rappresentanze sociali, in un Paese come il nostro caratterizzato da una frequenza particolarmente intensa di modifiche al ‘sistema pensioni’ (l’ex Presidente dell’Inps Tito Boeri utilizzò qualche anno fa la suggestione citazione letteraria tratta dalla Coscienza di Zeno della “malattia dell’ultima sigaretta” di cui sembra affetto il nostro Legislatore) è che deve trattarsi di misure strutturali con un orizzonte temporale di almeno 10 anni.

Cambiare continuamente le regole genera, infatti, una situazione di incertezza normativa reale e percepita che non aiuta cittadino e operatori a comprendere i meccanismi di funzionamento e le sue applicazioni. L’attesa continua di una nuova riforma che visto l’iter fin qui seguito dagli Anni 90 prima o poi ci sarà potrebbe poi generare nel caso della previdenza complementare una distorsione cognitiva con l’effetto di una inazione: traducendo in linguaggio semplice, ‘storditi’ da tante riforme che trasmettono la percezione di una legislazione in divenire, non si aderisce oggi a un fondo pensione e i rinvia la decisione all’avvento di nuove regole.

Il continuo rinvio della decisione, in un sistema finanziario a capitalizzazione qual è quello della previdenza complementare, produce una serie di effetti poco vantaggiosi per il lavoratore, dalla mancata contribuzione alla rinuncia alle agevolazioni fiscali e ai rendimenti con una prestazione a scadenza sensibilmente più ridotta.

Il punto di confluenza normativa del percorso avviato il 27 novembre 2019 da Governo e sindacati con incontri per dir così di ‘indirizzo politico’ e una serie di tavoli tematici vuole essere la prossima manovra finanziaria.

Dalla flessibilità in uscita alla pensione di garanzia

Ma quali sono i temi oggetto del confronto? In primo luogo, la ‘flessibilità in uscita’ con l’obiettivo di individuare una nuova misura che sostituisca Quota 100 al termine della sperimentazione (fine 2021) affiancandosi alle canoniche pensione di vecchiaia (67 anni di età e 20 anni di contributi) e pensione anticipata (42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne).

Si vuole così consentire un soft landing alle generazioni che non potranno beneficiare dal 2022 dei requisiti di Quota 100 (62 anni di età e 38 anni di contributi), evitando quello che qualche osservatore ha definito come ‘scalone’ di cinque anni (passare cioè dai 62 anni di quota 100 fino al 2021 a 67 anni della pensione di vecchiaia dal 1 gennaio 2022).

Profilo delicatissimo è poi quello della pensione di garanzia per le giovani generazioni, introducendo un meccanismo di salvaguardia al metodo di calcolo contributivo o coprendo i vuoti contributivi dovuti al lavoro precario o istituendo uno ‘zoccolo duro’, una sorta di minimo comune denominatore per supportare previdenzialmente la Generazione Z.

Si valuta anche la possibilità di superare le attuali soglie reddituali per l’accesso alla pensione anticipata e di vecchiaia. Per la pensione anticipata nel contributivo è necessario infatti oggi avere 64 anni e un’anzianità contributiva di 20 anni e l’ammontare della prima rata della pensione deve essere superiore a 2,8 l’importo mensile dell’assegno sociale, per la pensione di vecchiaia occorrono 67 anni e 20 anni di contributi e l’importo della pensione deve essere superiore a 1,5 volte l’importo dell’assegno sociale; in caso contrario si può accedere al trattamento di vecchiaia al compimento di 70 anni di età, aggiornato sulla base degli adeguamenti alla speranza di vita accertata dall’Istat, con almeno cinque anni di contribuzione effettiva.

Ulteriore punto è quello della rivalutazione delle pensioni per cui la richiesta sindacale è quindi quella di ripristinare al più presto la piena indicizzazione, almeno per gli assegni fino a sette volte il minimo (circa 3.600 euro lordi al mese, prevedendo al contempo un meccanismo di ristoro per i pensionati delle mancate rivalutazioni negli ultimi anni.

Si chiede poi di aggiornare i criteri con i quali a oggi è valutata l’indicizzazione, basati sul paniere Foi (Famiglie di operai e impiegati) che non rispecchia a pieno le reali spese sostenute dalla fascia più anziana della popolazione.

Vi è infine l’obiettivo di rilanciare la previdenza complementare, probabilmente con una nuova finestra di silenzio assenso, soprattutto per incrementare le adesioni di giovani e donna in ottica di adeguatezza complessiva dei trattamenti previdenziali. Si innesta in questa prospettiva anche il progetto lanciato e fortemente sostenuto dal Presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, di lanciare un nuovo fondo pensione pubblico che si porrebbe come ulteriore soluzione di integrazione pensionistica che si affiancherebbe ai fondi pensione collettivi e individuali già presenti sul mercato.

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Lorenzo Giuli

Lorenzo Giuli è lo pseudonimo di un esperto di previdenza complementare

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