Il lato oscuro della Gig economy
Nel suo nuovo film Sorry we missed you, Ken Loach riorienta la sua forza di critica sociale verso il mondo ormai emerso della Gig economy. Ricky Turner (interpretato dall’attore Kris Hitchen) ha perso il lavoro di operaio in seguito alla crisi del 2008, non è riuscito a sostenere il mutuo finalizzato all’acquisto di una casa per la sua famiglia e vede poi una via d’uscita nell’accettare un lavoro come driver freelance. Entra così nel mondo di un’agenzia di consegne che gestisce i fattorini con rapporti di lavoro autonomo, prospettando loro la suggestione di divenire piccoli imprenditori.
L’organizzazione è imperniata su uno strumento digitale, attivato però da una figura umana, una sorta di vero ‘caporale’ più che di manager del Terziario innovativo; costui vede così potenziata e moltiplicata la propria attitudine vessatoria nei confronti dei driver di cui gestisce le prestazioni.
Maloney – questo è il suo nome – si mostra però orgoglioso dei risultati raggiunti e dell’essere in testa rispetto alle organizzazioni simili, per fatturato e profitti, esprimendo con crudezza la propria ‘filosofia’ gestionale.
Abbagliati dall’illusione di autonomia imprenditoriale, i fattorini devono dotarsi a proprie spese di furgoni e sono posti in continua competizione per aggiudicarsi – giorno dopo giorno – il numero di consegne necessario per sostenere gli impegni finanziari assunti, oltre che per fronteggiare le esigenze familiari. Gli orari di lavoro diventano debordanti, l’esposizione ai rischi non è coperta dall’azienda committente e le esigenze personali sono misconosciute.
Questa situazione impoverisce la vita di Ricky e la sua relazione con la moglie Abbie (Debbie Honeywood) e i figli Seb (Rhys Stone) e Liza Jane (Katie Proctor): per acquistare il furgone hanno dovuto vendere l’auto della donna, che lavora a sua volta come badante-infermiera per un’agenzia di servizi sociali. Senza auto, lei deve spostarsi con l’autobus ai domicili dei suoi clienti – anziani, disabili, malati o infortunati – e ha la giornata scandita dalle chiamate al cellulare. Con i genitori sempre più stressati dalle condizioni di lavoro, i figli subiscono diversi squilibri: il ragazzo si impegna prima con un gruppo di writer e oltrepassa poi il limite della legalità arrivando a contrapporsi al padre; la ragazza, più piccola, soffre silenziosamente una situazione di incombente conflittualità familiare che non riesce ad accettare.
Una sceneggiatura molto attenta al dettaglio, come sempre in Loach, e la bravura di attori che entrano fino in fondo nelle parti assegnate rendono realistica e credibile l’illustrazione della crisi di relazioni interna a un microcosmo familiare, che diventa emblematica di una più generale situazione sociale altrettanto disperata.
Una crisi lavorativa, relazionale e sociale
Lo stesso titolo, Sorry we missed you, “scusa, ti abbiamo perso”, sintetizza come il film si presti a più livelli di lettura. Si tratta infatti della formula standard dei biglietti lasciati dai fattorini nel caso di mancata consegna, ma è anche la frase che il protagonista si sente rivolgere dai suoi familiari, e potrebbe evocare pure l’autocritica delle forze politiche progressiste ed europeiste davanti al consenso popolare verso la prospettiva della Brexit.
C’è quindi la disperazione di un nucleo familiare che non riesce a uscire dalla spirale negativa conseguente alla crisi dell’economia e alla disoccupazione; ma, attraverso le numerose occasioni nelle quali i membri della famiglia Turner si relazionano con persone esterne, emerge lo stato dell’Inghilterra negli anni della Brexit, nel suo disincanto e disordine, nella sua depressione psicologica diffusa.
Sul piano cinematografico, questo è reso in tante scene efficaci, come quelle che vedono una vigilessa severa sanzionare la breve sosta di un furgone, un cliente esprimere in modo poco simpatico la sua fede calcistica opposta a quella di Ricky, oppure gli autisti rinnegare ogni spirito di solidarietà nel confrontarsi tra loro quando si tratta di fare fronte a un’emergenza; per non parlare dell’aggressione subita dal protagonista da parte di un gruppo di teppisti.
Le esperienze di Abbie con i suoi clienti scavano ancora più in profondità questo scenario regressivo: lei ha un approccio molto umano e relazionale, dedica tempo e attenzione alle persone ben al di là di quanto le è riconosciuto dai meccanismi retributivi, che valorizzano il numero di visite e non la durata e la qualità del servizio. Man mano che si procede, gli aspetti che generano sentimenti positivi e accrescono l’autostima sembrano però destinati a venire compressi dalla macchina di un’organizzazione sociale che standardizza e uniforma, come fossero valori assimilabili alla resistenza solidale dei minatori all’ex Primo Ministro inglese Margaret Thatcher, rievocata in chiave di nostalgia, per un mondo che non c’è più, dalle parole di un’anziana assistita da Abbie.
Il disagio di vecchi e disabili è psicologico e di solitudine, più ancora che fisico. Abbie è attrezzata per cultura, esperienza e sensibilità a farvi fronte nel modo giusto, ma l’organizzazione sociale attuale appare disinteressata a valorizzare le sue qualità.
Ken Loach accumula quindi, in questo film, ulteriore materiale per una critica delle tendenze degenerative del sistema capitalistico negli anni della crisi, proseguendo nel solco dei suoi precedenti film. Si può discutere se l’intento di critica politica, o la visione ideologica del regista britannico, portino a stressare eccessivamente la negatività della situazione.
La socio-materialità quando tecnologia e uomo si intrecciano
Ai fini di questa rubrica, interessa però soprattutto riflettere sull’intreccio tra i fattori tecnologici e gli aspetti umani e sociali, che emergono dalla descrizione ricca di dettagli che il film compie di un’organizzazione che si impernia su piattaforme e dispositivi digitali. Accanto ai personaggi umani, un ruolo di co-protagonista è recitato da un oggetto tecnologico, lo scanner satellitare – ‘la pistola’, lo chiamano – che registra tutto quello che accade e rappresenta il terminale fisico e digitale della piattaforma centrale.
Attraverso gli algoritmi che lo governano, il sistema accoglie gli ordini dei clienti, programma le consegne attivando i driver disponibili e programmando i percorsi, registra e misura le performance, gestisce i compensi, utilizza le informazioni per classificare clienti e operatori, rileva le anomalie. Lo scanner è nelle mani dei driver, come strumento essenziale di lavoro che gli stessi ricevono dall’azienda con addebito del costo; serve per gestire le consegne, ma al tempo stesso attraverso l’App di geolocalizzazione, ne controlla tutti i movimenti nello spazio urbano.
Il ‘manager-caporale’ Maloney si vale della potenza di questo oggetto tecnologico, e ci mette del suo, ma si potrebbe anche ipotizzare un’evoluzione in cui la sua stessa figura viene superata e sostituita da algoritmi e robot. Possiamo leggere e interpretare la situazione nell’ottica della socio-materialità.
Per prima cosa, viene offerta l’evidenza che gli oggetti materiali sono ancora massicciamente presenti nell’era della digitalizzazione, dell’intangibile, dell’economia dei servizi. Camioncini, moto, biciclette dominano il paesaggio urbano, tutti guidati da umani con modalità che costituiscono uno dei maggiori ostacoli a quell’automatizzazione dei veicoli di cui si parla tanto.
Ma vediamo anche centri logistici con magazzini e rimesse, cancelli, porte con serrature, campanelli e videocitofoni, cassette delle lettere, cassonetti e contenitori della spazzatura, gru, scale e anche pennarelli e spray usati per scrivere sui muri, ecc. A questi materiali tradizionali si aggiungono – senza poterli sostituire – i device digitali, come gli smartphone e il famigerato scanner satellitare, che peraltro manifesta la sua materialità nel momento in cui viene fisicamente distrutto dai teppisti che aggrediscono il povero Ricky. Altri oggetti meno direttamente visibili operano nel backstage, a partire dagli algoritmi che regolano la scena.
L’effetto della tecnologia sulle relazioni
La socio-materialità teorizzata dalla ricercatrice Wanda Orlikowski e dalla professoressa Susan V. Scott trova riscontro nella narrazione, che descrive proprio un garbuglio di cose e persone: non si può dire che lo scanner sia uno strumento di lavoro del driver e neppure che sia semplicemente lo strumento che l’azienda e il suo manager utilizzano per gestire e controllare i collaboratori.
L’oggetto, con gli algoritmi che lo animano, è qualcosa di più potente e complesso che non ha senso se non inserito in un sistema di relazioni che include, quantomeno, driver, clienti e manager; l’oggetto interviene nel sistema di relazioni, le sostiene e le estende, ma non le domina completamente, perché ne fa parte ed è condizionato dal loro evolversi. Alla fine viene distrutto, quando il sistema di relazioni collassa, non solo per l’irruzione di un elemento esterno, ma anche per l’eccessivo stress psico-fisico vissuto da Ricky.
Ci si può chiedere se questo tipo di situazioni organizzative riproducano e aggiornino i modelli taylorfordisti del passato. Questi costituivano un sistema socio-tecnico di fabbrica; il lavoratore era inserito in un insieme di relazioni molto strutturate, che ne facevano l’elemento di un assetto meccanico con scarsi spazi di autonomia per i propri comportamenti. Tuttavia, partecipava alla produttività generata sulla base di una visione espansiva dell’economia che ribaltava i propri benefici anche sulla sfera sociale.
Nel nuovo contesto esemplificato dal film, la situazione è però differente. È vero che scanner e algoritmi consentono un controllo pervasivo del comportamento lavorativo, dei tempi, dei percorsi, del posizionamento, in modo che sembra piegare l’innovazione a riprodurre forme di comando e controllo sul lavoro, proprie dei regimi tradizionali di fabbrica; però la socio-materialità è molto evoluta, perché la tecnologia innerva una tensione relazionale molto maggiore, non limitata al sistema socio-tecnico della produzione, ma con una fortissima proiezione esterna per il coinvolgimento diretto dei clienti, con la tracciabilità dell’iter delle consegne, l’interazione in tempo reale e la richiesta di valutazioni sulla qualità del servizio.
Il sistema di fabbrica era quasi chiuso, comunque stabile, strutturato e con limitate varianze, mentre ora la produzione avviene in un contesto aperto, intessuto di relazioni fra persone molto estese, esposto a infinite interferenze. Il driver Ricky si relaziona con Maloney che lo assume, gli assegna gli ordini, ecc.; con i clienti quando consegna i pacchi, richiede le firme, riceve le valutazioni; con i colleghi quando richiede, accetta e nega una sostituzione. Il comportamento lavorativo è diverso perché la performance tecnica dei compiti si deve combinare con la capacità di gestire continuamente problematiche relazionali.
Se lo spessore tecnico-professionale non è rilevante, al lavoratore sono richieste altre qualità: serve reggere la tensione degli imprevisti, correre contro il tempo con ritmi da gara sportiva, mantenere il proprio equilibrio a fronte di comportamenti provocatori di clienti mentalmente disturbati, colleghi competitivi, o altri soggetti.
I comportamenti soggettivi delle società evolute
La sfida è ancora più ardua se si considerano gli ordini delle relazioni extralavorative. L’umore dell’operaio alla catena di montaggio poteva essere influenzato dai problemi inerenti ai rapporti familiari o di amicizia, però in una famiglia come quella di Ricky ogni persona è inserita in un tessuto relazionale più intenso, di cui le tecnologie digitali sono fattore di accelerazione.
Il film è interessante sotto questo punto di vista, perché sviluppa bene ciascuno dei sei rapporti a due, faccia a faccia, insiti in un gruppo di quattro persone: i due coniugi e i loro figli. Ciascuno dei familiari vive un analogo sistema relazionale all’esterno della famiglia e la connessione continua propaga immediatamente le perturbazioni da un sistema all’altro, come accade nel caso di eventi anomali o critici (quando Seb viene arrestato dalla polizia e convocato dal preside o quando Abbie deve fronteggiare un’emergenza per un suo assistito, ecc.).
Nell’epoca dell’operaio-massa, le situazioni soggettive si assomigliavano tutte. L’aspetto materiale era più rigido, sia nelle organizzazioni sia nella società, e meno spazio era disponibile per l’interpretazione personale dei ruoli. Nel contesto di società più evolute, ad alta presenza del Terziario e dell’immateriale, dove tutti sono continuamente connessi, la soggettività dei comportamenti esplode perché ogni persona è sollecitata in mille direzioni; ma, alla fine, si deve fare i conti con la dimensione materiale, con il garbuglio di persone e cose di cui è intessuta la vita quotidiana. Proprio chi presidia il confine con la materialità, come accade agli operatori delle consegne, rischia di trovarsi nell’epicentro della crisi.
Inoltre, nel contesto taylorfordista il lavoratore poteva sentirsi sfruttato e vivere la frustrazione di un sottoimpiego delle proprie qualità, ma viveva una prospettiva di miglioramento, di partecipazione a un benessere crescente che si diffondeva su tutta la società, di inclusione in movimenti collettivi finalizzati all’emancipazione.
L’economia dei servizi digitalizzati offerti dalle piattaforme ha ancora bisogno di uomini e donne addetti a gestire la parte materiale; se l’automazione non è totale e il personale non è sostituito da droni e robot, è perché la flessibilità del comportamento umano non è ancora alla portata di programmi e algoritmi, e anche il costo delle persone è inferiore.
A questi operatori, isolati come individui spesso posti in concorrenza tra loro, si richiedono performance elevate sotto il profilo comportamentale, ma la prospettiva di miglioramento della propria condizione sembra per ora più labile, forse addirittura più oggetto di manipolazione, di quanto avveniva nell’epoca d’oro dell’organizzazione taylorfordista.
gig economy, rapporto uomo-macchina, socio-materialità, Sorry we missed you, economia dei servizi