Il coronavirus come nuova peste manzoniana: l’incapacità organizzativa che ritorna
In questi giorni il coronavirus sta terrorizzando il mondo e in particolare l’Italia, originando fenomeni di paura collettiva e allarmismo. Le epidemie già in passato causarono analoghe reazioni in altri contesti storici e geografici: viene alla mente la peste descritta da Alessandro Manzoni, la cui gestione da parte delle autorità e la percezione sociale che se ne ebbe sono paragonabili alla situazione odierna causata dal coronavirus. Ne ha scritto Francesco Varanini nel suo libro Il principe di Condè (ESTE, 2010), da cui proponiamo un estratto liberamente rivisitato.
Con il termine “peste”, nelle culture di origine greco-latina, si designarono a lungo genericamente tutte le malattie epidemiche a carattere letale. Non a caso il latino pestis discende dalla stessa radice di peius, “peggio”, proprio a indicare la peggior malattia, la malattia per antonomasia. Essa colpisce misteriosamente e senza rimedio, segnando un’epoca, azzerandone lo sviluppo economico e sociale.
La storia ricorda la grande peste ateniese del 429 a. C. (che fu però in realtà un’epidemia di tifo) e quella che colpì Roma nel 66 d. C. (stavolta realmente peste bubbonica), descritta da Tacito. Enormi furono le conseguenze dell’epidemia che si manifestò in tutto il bacino del Mediterraneo nel 542 e ugualmente gravi, e più note, le conseguenze della peste che si abbatté sull’Europa occidentale tra il 1347 e il 1350. Questa era la famosa e terribile ‘morte nera’, che trovò in Boccaccio (nel Decameron) un eccezionale testimone.
Profonde conseguenze sulla sensibilità collettiva
I temi del ‘trionfo della morte’, della ‘danza macabra’, del ‘dialogo tra morto e defunto’ diventarono centrali nella produzione letteraria e artistica, ma soprattutto motivarono comportamenti di massa di tipo psicopatologico. Ignorando le origini dell’epidemia, se ne cercavano origini mitiche e superstiziose (per esempio nelle stelle, nel demonio): l’accusa di avere provocato l’epidemia fu occasione di scoppi di violenza e di eccidi, soprattutto nei confronti degli ebrei.
Nel 1300 Milano, a causa dell’isolamento politico e commerciale vigente sotto i Visconti, fu risparmiata. Non fu così nel 1576 (in occasione della cosiddetta “peste di San Carlo”) e negli anni 1629-1630 in cui, come ci racconta il Manzoni, l’epidemia colpì con particolare violenza: la popolazione della città venne ridotta a un quarto di quella pre-pestilenza.
Solo alla fine del secolo scorso è stata scoperta l’origine della peste (malattia infettiva acuta a diffusione epidemica): è provocata da un batterio parassita della pulce che solitamente infesta i ratti per poi passare ad altri ospiti (umani compresi). Individuatane l’origine, la peste (senza peraltro scomparire del tutto) ha perso la sua natura di minaccia incontrollabile.
Non è però scomparsa – per la massa e per il singolo uomo – l’idea della minaccia incombente della pestilenza, un pericolo di fronte al quale sembra impossibile difendersi e che provoca tipiche reazioni che vanno dal rifiuto della realtà, che spinge a rinunciare alle più semplici precauzioni, alla ricerca di un colpevole (anche immaginario).
Si arriva perfino alla delega della ricerca della soluzione a un ente pubblico, sia esso il Tribunale della Sanità nel 600 a Milano o il Ministero della Sanità. In questo senso sono ‘peste’ l’Aids, il cancro e oggi il coronavirus. Per questo l’approntamento e la gestione di efficaci sistemi di prevenzione e di controllo della ‘peste’ ci appaiono, oggi come allora, la massima manifestazione di capacità organizzative.
Il pericolo sottovalutato e il contagio della città
Manzoni apre la sua narrazione sottolineando la paura che la peste causò e il carattere catastrofico che essa ebbe per Milano e per altre aree italiane. “La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar con le bande alemanne nel milanese, c’era entrata per davvero, com’è noto; ed è noto parimente che non si fermò qui, ma invase e spopolò una buona parte d’Italia. Condotti dal filo della nostra storia, noi passiamo a raccontar gli avvenimenti principali di quella calamità; nel milanese, s’intende, anzi in Milano quasi esclusivamente” (cap. XXXI, p. 777).
Le autorità milanesi, non appena vennero a conoscenza della diffusione di un’epidemia in aree limitrofe alla città, cercarono di capire se si trattasse effettivamente della temuta peste.
“Ed ecco sopraggiungere avvisi somiglianti da Lecco e da Bellano. Il tribunale allora si risolvette e si contentò di spedire un commissario che, strada facendo, prendesse un medico a Como, e si portasse con lui a visitare i luoghi indicati. Tutt’e due, o per ignoranza o per altro, si lasciarono persuadere da un vecchio e ignorante barbiero di Bellano, che quella sorte de mali non era Peste (Tadino, ivi; nota dell’autore); ma in alcuni luoghi, effetto consueto dell’emanzioni autunnali delle paludi, e negli altri, effetto de’ disagi e degli strapazzi sofferti, nel passaggio degli alemanni. Una tale assicurazione fu riportata al tribunale, il quale pare ne mettesse il cuore in pace” (cap. XXXI, pp. 780-781).
Le autorità si accontentarono quindi di assicurazioni scarsamente attendibili, nonostante fossero fin da subito a conoscenza del rischio, ma, per incuria o per il peso della responsabilità che le stesse rifiutarono fin dove fu possibile, tese a prevalere “quella stupida e micidiale fiducia che non ci fosse peste”. Dunque il governo spagnolo di Milano scelse di non intervenire e di ignorare momentaneamente la minaccia, condannando la città al contagio.
L’incapacità gestionale delle autorità
Quando le autorità si arresero all’evidenza – la peste c’è – fu ormai tardi e i radicali interventi preventivi furono superati dagli eventi: “I delegati presero in fretta e in furia quella misure che parver loro migliori, e se ne tornarono, con la trista persuasione che non sarebbero bastate a rimediare e a fermare un male già tanto avanzato e diffuso”.
Il governatore, Ambrogio Spinola, informato sullo stato della pestilenza, non prese subito atto della gravità della situazione e della necessità di una sua azione tempestiva; preferì dedicarsi alle azioni militari che riteneva più pressanti avendo un mandato preciso: “Raddrizzar quella guerra e riparare agli errori di don Gonzalo”, suo predecessore .
Nota amaramente il Manzoni: “La storia ha descritte con molta diligenza le sue imprese militari e politiche, lodata la sua previdenza, l’attività, la costanza: poteva anche cercare cos’abbia fatto di tutte queste qualità, quando la peste minacciava, invadeva una popolazione datagli in cura, o piuttosto in balìa”.
La guida che doveva dare indicazioni ai gabellieri su come bloccare gli ingressi alla città “risoluta il 30 d’ottobre, non fu stessa che il dì 23 del mese seguente, non fu pubblicata che il 29. La peste era già entrata in Milano”. L’intervento tardivo del governatore, quindi, fu del tutto insufficiente a proteggere la popolazione milanese dalla diffusione del morbo e fu dettato dalla sua incapacità di vedere la realtà e di individuare i problemi realmente urgenti.
L’interesse –l’apparente interesse– a non vedere la realtà accomuna, tuttavia, le autorità e la cittadinanza. “L’imperfezion degli editti” si sommò alla “trascuranza nell’eseguirli” e alla “destrezza nell’eluderli”. Abiti e masserizie probabilmente contaminati, che avrebbero dovuto esser bruciati, furono oggetto di furto e di scambio. E se “di quando in quando, ora in questo ora in quel quartiere” qualcuno moriva “la radezza stessa de’ casi allontanava il sospetto della verità”.
La negazione della realtà degli operatori sanitari
Il desiderio di non contraddire le posizioni già assunte e la paura di una realtà che si preferirebbe non vedere spinsero a cercare caparbiamente, “contro la ragione e l’evidenza”, spiegazioni che contraddicono i dati di realtà.
Per esempio, sul Tribunale della Sanità, che pur dopo resistenze comprese la situazione, caddero strali da ogni parte poiché la popolazione non comprese la necessità delle norme da esso fissate e le percepì come “vassazioni senza motivo, e senza costrutto” (cap. XXXI, p. 787).
Anche i pochi medici che agirono con energia e con coraggio furono oggetto di vero odio perché contraddirono la comoda difensiva pubblica opinione. Di fronte all’atteggiamento concorde di quest’ultima e del Governo, la stragrande maggioranza dei medici infatti si adattò, confermando ‘scientificamente’ l’assenza di pericolo.
“Molti medici ancora, facendo eco alla voce del popolo (era, anche in quel caso, voce di Dio?), deridevan gli aùguri sinistri, gli avvertimenti minacciosi dei pochi; e avevan pronti nomi di malattie comuni, per qualificare ogni caso di peste che fossero chiamati a curare; con qualunque sintomo, con qualunque segno fosse comparso” (cap. XXXI, p. 787 ).
“I medici opposti alla opinion del contagio, non volendo ora confessare ciò che avevan deriso, e dovendo pur dare un nome generico alla nuova malattia, divenuta troppo comune e troppo palese per andarne senza, trovarono quello di febbri maligne, di febbri pestilenti; miserabile transazione, anzi trufferia di parole, che pur faceva gran danno; perché, figurando di riconoscere la verità, riusciva ancora a non lasciar credere ciò che più importava di credere, di vedere, che il male s’attaccava per mezzo del contatto” (cap. XXXI, p. 790).
La caccia all’untore e la gestione tardiva
Non conoscendo la causa della malattia il popolo cercò risposte in irrazionali e assurde superstizioni. Nacque la convinzione che la pestilenza fosse causata dalla volontà del demonio e che alcuni individui fossero i responsabili della diffusione del morbo. Il terrore della malattia che assalì i cittadini si tradusse in una febbrile e feroce ‘caccia’ agli untori.
“La mattina seguente, un nuovo e più strano, più significante spettacolo colpì gli occhi e le menti de’ cittadini. In ogni parte della città, si videro le porte delle case e le muraglie, per lunghissimi tratti, intrise di non so che sudiceria, giallognola, biancastra, sparsavi come con delle spugne. O sia stato un gusto sciocco di far nascere uno spavento più rumoroso e più generale, o sia stato un più reo disegno d’accrescer la pubblica confusione, o non saprei che altro; la cosa è attestata in maniera, che ci parrebbe men ragionevole l’attribuirla a un sogno di molti, che al fatto d’alcuni: fatto, del resto, che no sarebbe stato, né il primo né l’ultimo di tal genere. (…)
La città già agitata ne fu sottosopra: i padroni delle case, con paglia accesa, abbruciacchiavano gli spazi unti; i passeggieri si fermavano, guardavano, inorridivano, fremevano. I forestieri, sospetti per questo solo, e che allora si conoscevan facilmente al vestiario, venivano arrestati nelle strade dal popolo, e condotti alla giustizia” (cap. XXXI, pp. 795-797).
“Nella chiesa di Sant’Antonio un giorno un giorno di non so quale solennità, un vecchio più che ottuagenario, dopo aver pregato alquanto inginocchioni, volle mettersi a sedere; e prima, con la cappa, spolverò la panca. ‘Quel vecchi unge le panche!’ gridarono a una voce alcune donne che vider l’atto. La gente che si trovava in chiesa (in chiesa!), fu addosso al vecchio; lo prendon per i capelli, bianchi com’erano; lo carican di pugni e calci; parte lo tirano, parte lo spingon fuori; se non lo finirono, fu per istrascicarlo, così semivivo, alla prigione, ai giudici, alle torture” (cap. XXXII, pp. 807-808).
La descrizione di ciò che accade, condizionate da paure e interessi, sono sempre solo parzialmente veritiere, giungono sempre in ritardo, “stornano dal vero l’attenzion del pubblico”. Nel frattempo però, nota con sdegno il Manzoni, le persone muoiono davvero e perciò che le capacità organizzative e di Governo dovrebbero combattere, con i fatti, contro le parole.
“In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste; vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s’è attaccata un’altra idea, l’idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l’idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro” (cap. XXXI, p. 799).
Francesco Varanini è Direttore e fondatore della rivista Persone&Conoscenze, edita dalla casa editrice ESTE. Ha lavorato per quattro anni in America Latina come antropologo. Quindi per quasi 15 anni presso una grande azienda, dove ha ricoperto posizioni di responsabilità nell’area del Personale, dell’Organizzazione, dell’Information Technology e del Marketing. Successivamente è stato co-fondatore e amministratore delegato del settimanale Internazionale.
Da oltre 20 anni è consulente e formatore, si occupa in particolar modo di cambiamento culturale e tecnologico. Ha insegnato per 12 anni presso il corso di laurea in Informatica Umanistica dell’Università di Pisa e ha tenuto cicli di seminari presso l’Università di Udine.
Tra i suoi libri, ricordiamo: Romanzi per i manager, Il Principe di Condé (Edizioni ESTE), Macchine per pensare.
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