Ripartiamo e riprendiamoci il nostro ruolo nel Manifatturiero
Ferve più che mai intenso il dibattito sulla fase 2, sui suoi tempi e soprattutto sulla necessità di linee guida per la piena ripresa del Paese. L’Italia è visibilmente stremata, da Nord a Sud, da un lockdown sui cui caratteri, sulla cui attuazione e sulle cui contraddizioni c’è molto da riflettere nei prossimi mesi, anche per non ripeterne alcuni errori commessi a livello locale ormai evidenti.
Per ora limitiamoci a osservare come sia più che mai opportuno – e necessario – che buona parte della produzione industriale nazionale, fermatasi bruscamente a metà marzo 2020, riparta affiancandosi a quella che, invece, ha continuato a offrire beni e utility indispensabili come alimentari, farmaceutici ed energia, o in settori, come per esempio l’aerospazio, a buona ragione ritenuti strategici dal Governo.
Le prosecuzioni delle attività trasformatrici di beni – è doveroso saperlo e ricordarlo anche ad alcuni epidemiologi totalmente a digiuno (purtroppo) di economia – fra l’altro hanno consentito all’Istat di rilevare una flessione ‘solo’ del 4,7% del Pil nel primo trimestre dell’anno, meno cioè di quanto si fosse temuto. Una prosecuzione di attività industriali, aggiungiamo, cui larga parte del manifatturiero localizzato nell’Italia meridionale ha offerto un contributo oltremodo significativo, perché in alcune delle sue regioni sono in esercizio ormai da anni molti stabilimenti di rilievo nazionale dei comparti prima richiamati.
Il pericolo di accumulare debito a oltranza
Si riparte in sicurezza, dunque, con protocolli sottoscritti fra aziende e sindacati che devono essere rispettati e fatti rispettare in forme assolutamente inflessibili, ma si torna a produrre in larga parte di quella manifattura italiana, ancora seconda in Europa – salvo possibili rettifiche di Eurostat sui valori aggiunti nazionali – che è il motore trainante, anche se non l’unico, del Made in Italy.
Si tratta di una ripresa delle produzioni industriali che concorrono (ancora) a conferirci credibilità come Paese con un elevatissimo debito pubblico, che deve poter contare su acquisti dei suoi titoli in quantità praticamente illimitate da parte della Banca centrale europea – salvo sentenza della Corte costituzionale tedesca – e che, accumulando altro deficit, ha promosso sinora due manovre di politica economica prevalentemente distributive per assicurare, com’era giusto che fosse, un minimo vitale al maggior numero possibile di cittadini impossibilitati a svolgere le loro abituali attività lavorative (anche quelle più umili e spesso remunerate in nero), ma comunque capaci di assicurare un qualche reddito di sussistenza.
Ma ora – se ne convincano tutti quegli esponenti politici che sembrano trovarsi più a loro agio nel distribuire risorse (acquisite a debito) piuttosto che avanzare proposte per rilanciare strutturalmente la macchina industriale del Paese – bisogna tornare a produrre tutti quei beni e servizi nei quali l’Italia è leader nel mondo, e che (ricordiamocelo) insieme con il risparmio privato ci assicurano ancora credibilità come debitori solvibili. O qualcuno in Parlamento e nel Paese – inebriato dalla rapidità e dalle dimensioni con cui in due mesi sono stati superati dal Governo i vincoli del Patto di stabilità, sospesi ma non abrogati dalla Commissione europea – ritiene che si possa continuare ad accumulare debito a oltranza, peggiorando ulteriormente il rapporto deficit-Pil?
Agli scienziati il compito di potenziare la risposta sanitaria
Della necessità di tornare a produrre si convincano (finalmente) anche alcuni epidemiologi che ci sembrano indulgere (sempre e soltanto) a un certo estremismo prescrittivo, dando poi per scontato, con previsioni apocalittiche di ricoveri in terapia intensiva, un ritorno in più ondate dell’epidemia – e la cui terapia pertanto sarebbe solo la riproposizione di lockdown nazionali o locali – invece di concorrere ad affinare ulteriormente terapie farmacologiche e le loro metodiche di somministrazione rivelatesi efficaci o di mettere a punto procedure realmente utili di isolamento dei contagiati e non loro ‘ammassamenti coatti’ in ambiti domestici ove pure il virus ha colpito, così come, sia pure con maggiore durezza, nelle Rsa.
Allora, secondo chi scrive, ha pienamente ragione il Commissario straordinario per l’emergenza Covid-19 Domenico Arcuri il quale, all’indomani della divulgazione delle simulazioni compiute dal Comitato tecnico-scientifico dei contagi e delle relative stime (spesso apocalittiche) di ricoveri in terapie intensive, ha dichiarato che l’epidemia – ora in fase discendente – potrebbe anche tornare a salire per il numero dei contagiati, ma che ora saremmo pronti ad affrontarla grazie a tutto quanto è stato già messo in campo sinora per fronteggiarla e che perciò, se rispetteremo le misure di prevenzione del contagio con l’uso (là dove e quando prescritto) dei dispositivi di protezione individuale (Dpi), non vi sarà alcuna apocalisse prossima ventura.
Allora, a chi parlava in realtà Arcuri? A quali e quante ‘nuore’ si rivolgeva perché altrettante ‘suocere’ intendessero? A quali Palazzi ministeriali e a chi nella comunità intendeva riferirsi?
Articolo a cura di
Federico Pirro
manifattura, fase 2, ripartenza