Il litigio del Governo che affonda l’economia
Era il 2011 quando Il Sole 24Ore titolò: “Fate presto”. Si era in piena crisi economica con lo spread Btp-Bund a oltre 550 punti e una credibilità finanziaria a rischio. Nel 1980 lo stesso titolo fu scelto da Il Mattino di Napoli: allora l’allarme arrivava a tre giorni dal terremoto che colpì l’Irpinia, per salvare e aiutare chi non aveva più nulla.
Anche oggi quel “Fate presto” riecheggia nella fase 2 dell’emergenza coronavirus, nella quale le tensioni economiche e sociali si moltiplicano di giorno in giorno. La crisi aumenta, come ha confermato il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte che ha parlato di “mesi molto difficili”, “brusca caduta del Pil” e di “conseguenze economiche molto dolorose”.
Le promesse di sostegno alle imprese che il Governo ha fatto con il decreto Cura Italia e il decreto Liquidità, che definiscono regole precise per accedere ai finanziamenti, si sono scontrate con l’atteggiamento delle banche da cui i soldi non arrivano come ipotizzato dai tecnici dell’Esecutivo. Conte ha detto di voler agire per la “rimozione degli eventuali passaggi che rallentano l’erogazione”, ma nel frattempo i problemi aumentano.
Adesso si assiste allo scontro nella maggioranza sul decreto Rilancio che mette a disposizione 55 miliardi di euro per imprese, famiglie e lavoratori (una cifra doppia rispetto a una finanziaria tradizionale). Ma la misura – che in origine doveva chiamarsi decreto “Aprile”, ma evidentemente ai piani alti la fretta delle imprese non è percepita allo stesso modo – si è impantanata. Motivi economici? Ce ne sarebbe più di uno, perché le coperture delle misure sono un rebus. Ma in realtà lo stallo è dovuto alla discussione sulla regolarizzazione di braccianti e colf.
Le imprese finiscono in mano alla mafia
C’è un Paese che grida aiuto e il Governo litiga su un tema che, ne capiamo l’importanza, potrebbe essere scorporato dal resto delle misure così da accelerare sul fronte imprese. Perché mentre la politica litiga, secondo il report dell’area studi di Mediobanca, il Pil italiano nel 2020 è destinato a calare del 9,1%. Per gli analisti è la “peggiore crisi dal Dopoguerra”.
E mente la maggioranza si ingarbuglia, c’è un altro allarme da non sottovalutare e che riguarda le aziende. Il Procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, ha detto che “le mafie si stanno comprando il brand Italia”. In particolare, nel mirino delle associazioni mafiose ci sono alberghi, ristoranti e parrucchieri. E in questo caso, sempre secondo il magistrato, “la ‘ndrangheta è arrivata prima dello Stato”. Le storie di imprese finite in mano agli strozzini si moltiplicano e non solo nel Sud Italia. Sulle pagine de La Stampa si racconta la vicenda di un imprenditore che ha chiesto 10mila euro ad ‘amici’ e in un solo mese ha dovuto versare interessi per 4mila euro. I soldi gli sono arrivati subito, “altroché domande, pratiche di verifica, timbri, carteggi, burocrazia”. Peccato che poi gli ‘amici’ si presentino alla porta con le peggiori intenzioni.
Poi ci sarebbe anche il capitolo Silvia Romano, la cooperante internazionale tornata in Italia dopo essere stata rapita 18 mesi fa in un villaggio del Kenya. La sua vicenda tiene banco perché si parla di un possibile riscatto pagato per la sua liberazione, ma soprattutto perché è scesa dall’aereo con una veste islamica verde, conseguenza della sua conversione all’Islam. E nel nostro Paese vicino al collasso è meglio discutere delle scelte personali della giovane che non protestare contro la lentezza delle misure anti-crisi.
Dunque, vogliamo darci una mossa? Se vogliamo lasciare le imprese sull’orlo del baratro o peggio consegnarle alla mafia la direzione intrapresa è la migliore.
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