Altro che Rilancio, questo è assistenzialismo
Si chiama decreto Rilancio, ma decreto “Assistenza” sarebbe stata l’etichetta più idonea. Basterebbe guardare i numeri per capire che il Governo ha perso la chance per smarcarsi dall’assistenzialismo in favore di un vero rilancio. Se, dei 55 miliardi di euro messi in campo dall’ultimo decreto per contrastare l’emergenza economica generata dalla pandemia, alle imprese ne sono stati destinati 16, ben 26 sono quelli riservati ai lavoratori. Ed è in questa disparità che si racchiude la chiara volontà di un Esecutivo a vocazione assistenzialista che, probabilmente, ha preferito concentrare le sue forze per evitare un’ondata di tensioni sociali.
Si dimentica, però, che le aziende – almeno in Italia – non sono popolate da robot, ma da persone. Che, spesso, hanno il lavoro come unica fonte di reddito. Dunque, nel breve la falla è stata tamponata, ma nel lungo periodo, chi si farà carico di coprire le spese assistenziali? Perché le misure di assistenza devono trovare copertura, a meno di non voler continuamente alimentare il nostro debito, già monstre: su questo fronte dovremmo tenere a mente il caso dell’Argentina, il cui debito è diventato oggetto di un museo, per ricordare che non si tratta di una medicina, ma del problema (non per nulla Buenos Aires è vicina al suo nono default per incapacità di ripagare il debito).
Il Premier Giuseppe Conte ha parlato di “grande lavoro di squadra” e che il Governo ha “impiegato il tempo necessario” per arrivare a definire i contenuti del decreto. Nella maggioranza, però, qualcuno ha confessato che di rinvio in rinvio – il decreto ricordo che in origine si chiamava “Aprile” – si è “aspettato anche troppo”.
Dimenticata la digitalizzazione delle imprese
Mentre saranno erogati soldi ai lavoratori, i dati economici si fanno sempre più drammatici. Nell’area euro la produzione industriale è diminuita a marzo 2020 dell’11,3% rispetto a febbraio. Poi c’è il capitolo criminalità organizzata che approfitta degli spazi lasciati dallo Stato per incunearsi nel sistema, sostituendosi di fatto a chi dovrebbe sostenere le imprese. I casi di tentativi di infiltrazione non si contano più. In Emilia-Romagna un imprenditore ha spiegato che per pagare gli stipendi ai suoi 44 dipendenti ha finito i risparmi: avrebbe potuto accettare 1 milione di euro da un ‘amico’. Per fortuna ha rifiutato. Ma ora chi lo aiuta a dare un futuro alla sua azienda e dunque ai lavoratori che non potranno certo vivere di soli sussidi?
C’è, però, chi cerca una soluzione per uscire dall’emergenza. La Moda, comparto di eccellenza per l’Italia, sta compiendo un’interessante evoluzione. Dolce e Gabbana hanno spiegato di voler puntare sui negozi digitali e sull’artigianato. La tecnologia diventa una leva abilitante per la ‘nuova normalità’: il sostegno del Piano Industria-Impresa 4.0 sarebbe stato fondamentale, peccato che ai piani alti si siano trovati fondi per sostenere i lavoratori e non per proseguire la strada della trasformazione digitale delle imprese.
Noi siamo il Paese cui piace iniettare (o almeno promettere di farlo) soldi in progetti. Poi non importa che non si completino. Ne cito uno a caso preso da La Stampa, che snocciola i dati: dal 2012 i lavori dell’autostrada Asti-Cuneo sono fermi. Mancano gli ultimi nove chilometri (un decimo del totale): servirebbero circa 700 milioni di euro per il completamento. Lo stallo, secondo l’associazione trasportatori, vale 100 milioni l’anno che, moltiplicato per gli otto anni di stop dei lavori e del tempo che servirà per finire i lavori, lievitano oltre il miliardo di euro. Giusto per fare un confronto, per il sistema scolastico il decreto Rilancio ha stanziato una cifra simile: 1,45 miliardi. Il nostro futuro vale poco più di nove chilometri di cemento. Auguri a tutti.
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