Prestito Fca, occasione sprecata per un nuovo modello di impresa
Sgombriamo subito il campo da equivoci: non c’è nulla di oscuro nella questione del prestito da 6,3 miliardi di euro a Fca concordato tra l’azienda, il Governo, Sace e Banca Intesa. Pur avendo la sede fiscale in Olanda e quella legale in Gran Bretagna, per ciò che produce e vende in Italia, Fca paga le tasse al nostro Paese. Secondo una recente analisi de Linkiesta, si tratta di circa 4 miliardi all’anno (prelevati dai 25 miliardi di euro generati dalle attività italiane).
Fca è, quindi, il principale gruppo Automotive presente in Italia e mobilita il 40% del fatturato della componestistica nazionale: come precisato da Fim-Cisl, dà lavoro a circa 86mila dipendenti e alle sue attività sono collegati circa 300mila lavoratori.
In merito alla richiesta di 6,3 miliardi di euro, stando al sito ufficiale del sindacato, Fca ha richiesto accesso alle misure del decreto Liquidità che si concretizzano “nel prestito a tre anni per far fronte allo stop totale delle 5.500 società della filiera (fornitori, concessionari, ecc.) che hanno gran bisogno di liquidità e non riescono ad accedervi”. Da quanto è stato scritto da Fim-Cisl, il “prestito sarà per pagare fornitori e dare impatto immediato alla ripartenza”.
Inoltre “l’azienda ha precisato che il prestito richiesto è legato solo alla società italiana e agli investimenti italiani e ai fornitori italiani” e “sono confermati i 5 miliardi di investimenti in Italia” (“Non è cosa semplice in una fase come questa”, è stato scritto nel comunicato stampa emesso dalla Fim-Cisl dopo la call tra l’Amministratore Delegato di Fca Pietro Gorlier e i segretari generali di Fim, Fiom, Uilm, Fismic, Ugl e Aqcf).
Serve un nuovo modello sostenibile
La vicenda del prestito, però, ha generato uno scontro non solo sui social, ma anche tra politici ed economisti. Il Ministro dell’Economia Roberto Gualtieri si è precipitato a ricordare che si tratta di “un prestito e non di un regalo”, aggiungendo che “tutti gli investimenti previsti vanno confermati e rafforzati, dall’occupazione, al no alla delocalizzazioni e al monitoraggio dell’accordo”.
Si deve ammettere che la voce più lucida è stata quella di Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, che ha ricordato dalle pagine de La Stampa come Fca abbia nel nostro Paese “decine di migliaia di dipendenti” e ha puntato l’attenzione sulla finalità del prestito: “Se mi serve a distribuire dividendi, non si può fare; se può servire a far camminare e ad aiutare i lavoratori e i fornitori in Italia, è tutt’altra vicenda”.
Stando anche a quanto precisano i sindacati, nell’operazione non c’è nulla di strano, nonostante la questione della sede legale e fiscale all’estero. Ma Fca non è certo sola: sono numerosi i grandi gruppi che si sono trasferiti in Olanda non per sfruttare le aliquote fiscali ridotte (che non ci sono), bensì per i bassissimi prelievi presenti sui dividendi, sui guadagni da cessioni-partecipazioni e sulle royalties.
La questione, allora, è di altra natura. Il problema non è chi accede alle misure, ma le regole imposte dallo stesso decreto Liquidità. È pur vero che chi riceve un prestito da Sace non potrà distribuire i dividendi nel 2020 né riacquistare azioni proprie (gestendo nel contempo i livelli occupazionali attraverso accordi sindacali), ma dal decreto ci si poteva aspettare qualcosa di più: per esempio poteva essere l’occasione per lanciare una piattaforma utile a impostare un nuovo modello sostenibile di impresa. Per garantire la tutela dei lavoratori e ripartire da regole affinché l’azienda sia un bene collettivo e non ci siano stakeholder ‘più importanti di altri’.
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