Coronavirus, la responsabilità della sicurezza per il datore di lavoro

Con il decreto legge Cura Italia del 17 marzo 2020 la tutela assicurativa Inail prevista in caso di infortunio sul lavoro è stata estesa anche ai casi “accertati” di contagio da Covid-19 sul posto di lavoro. L’infezione da coronavirus – sempre che ne venga provata l’origine professionale, aspetto non scontato data l’ampia diffusione della pandemia in Italia e le numerose potenziali occasioni di contagio – viene quindi equiparata alla “causa violenta” tipicamente alla base degli infortuni, con tutto ciò che ne consegue in termini di responsabilità civile, e soprattutto penale, per il datore di lavoro.

Questo aspetto ha suscitato uno scontro tra imprenditori, sindacati e Inail, con quest’ultimo che è dovuto intervenire con diverse circolari per fare chiarezza e con la Ministra del Lavoro, Nunzia Catalfo, chiamata a specificare che “fondamentale per le aziende sarà il rispetto dei principi stabiliti dai protocolli di sicurezza”.

Il tema, però, rimane, anche perché – come fanno notare i giuslavoristi – da un lato l’interpretazione dei protocolli di sicurezza non sempre è univoca e quindi lascia aperti spazi di interpretazione, e dall’altro, se è vero che non c’è nessun automatismo tra l’accertamento dell’infortunio e la responsabilità penale del datore di lavoro, è anche vero che l’apertura di un procedimento penale rappresenta di per sé un danno per l’azienda, che rischia fino alla sospensione dell’attività.

Infortunio e malattia: cosa cambia e come si è agito finora

La decisione di considerare il contagio da Covid-19 sul lavoro come un infortunio, e non come una malattia professionale, ha l’obiettivo di dare maggiore tutela assicurativa al lavoratore. A spiegare la differenza tra i due inquadramenti è Francesco Rotondi, Founder di LabLaw: “La scelta può essere motivata dal fatto di voler evitare che gli eventuali mesi di assenza dal lavoro del dipendente ammalatosi di coronavirus possano andare a esaurire i giorni di malattia a sua disposizione, il cosiddetto ‘comporto’, la cui durata può variare ed è indicata in ciascun contratto di lavoro subordinato. Un’alternativa, però, poteva essere quella di considerare il Covid-19 come malattia, ma di non conteggiare questo tipo di assenze nel comporto”.

Secondo Piercarlo Antonelli di Amtf Avvocati, tuttavia, la scelta di inquadrare il Covid-19 come infortunio non fa altro che confermare un orientamento consolidato: “Tutte le infezioni biologiche del passato sono sempre state considerate infortuni, per esempio l’epatite o l’Aids; se il contagio avviene nell’ambito del rapporto di lavoro è infortunio, altrimenti è malattia. Anche se non ci fosse stata l’esplicita norma del Cura Italia, credo che la direzione intrapresa sarebbe stata la stessa”.

Cosa comporta, dunque, tutto ciò? Accertato che il contagio ha avuto luogo “in occasione di lavoro”, l’Inail riconoscerà un indennizzo al lavoratore in questione, che può poi richiedere un ulteriore “danno differenziale” al datore di lavoro. Se poi, nel corso dei suoi accertamenti, l’Inail dovesse ravvisare possibili profili di responsabilità dell’azienda, per il mancato rispetto dei protocolli di sicurezza, allora ne darà notizia alla procura competente, che procederà con le indagini.

L’Inail, nelle circolari di chiarimento, ha spiegato che “la molteplicità delle modalità del contagio e la mutevolezza delle prescrizioni da adottare sui luoghi di lavoro rendono estremamente difficile la configurabilità della responsabilità civile e penale dei datori di lavoro”, ma si tratta di una considerazione non vincolante per i giudici.

L’origine presunta del contagio: due strade in base al tipo di professione

In Italia, tra i Paesi al mondo più colpiti dalla pandemia, ci sono però ancora decine di migliaia di persone attualmente positive al coronavirus. E con la riapertura delle attività economiche e dei luoghi di aggregazione come ristoranti, bar o negozi, le occasioni di contatto e quindi di potenziale contagio si moltiplicano. Per questo motivo risulta complesso accertare l’origine dell’infezione e poter affermare con certezza che questa sia avvenuta proprio sul posto di lavoro o nel tragitto per arrivarci, che è considerato infortunio “in itinere”.

Per accertare questo aspetto, gli ispettori dell’Inail si muovono in due modi diversi: “Per alcune categorie di lavoratori esposti a un elevato rischio di contagio vige una presunzione semplice di origine professionale dell’infezione. Questo accade per gli operatori sanitari, ma anche per tutti coloro la cui attività comporta il costante contatto con il pubblico, come i lavoratori che operano in front-office, alla cassa, gli addetti alle vendite e i banconisti. Per tutti gli altri l’accertamento medico-legale seguirà, invece, l’ordinaria procedura privilegiando essenzialmente i seguenti elementi: epidemiologico, clinico, anamnestico e circostanziale”, chiariscono Arianna Colombo, Senior Counsel, e Chiara Pederzoli, Senior associate di BonelliErede.

In sostanza, se si ammala un lavoratore della prima categoria si presume che il contagio sia avvenuto sul posto di lavoro e non servono ulteriori prove. Se ad ammalarsi è, invece, un lavoratore della categoria considerata meno a rischio, spetta all’Inail accertare che l’infezione sia avvenuta proprio nel contesto lavorativo. In questo caso conta anche il contesto: se, per esempio, in una data azienda si dovesse registrare un focolaio di contagi, questo rafforzerebbe l’ipotesi che la persona in questione si sia infettata lì.

Un’impostazione con cui non concorda Rotondi di LabLaw, che la definisce “una forzatura”: “Ci sono ancora tanti aspetti del Covid-19 che non conosciamo, a partire dai tempi di incubazione. Presumere l’origine e il momento del contagio significa fare una forzatura di natura politica, perché si riversa sull’impresa e sull’Inail una responsabilità sociale difficile da gestire e che non spetta a questi due soggetti”.

Il processo penale e le implicazioni per l’impresa

Date le polemiche scaturite sul tema, l’Inail e Catalfo hanno rassicurato i datori di lavoro spiegando che se rispetteranno i protocolli di sicurezza potranno dormire sonni tranquilli: per arrivare a una condanna – per lesioni colpose o per omicidio colposo per violazione delle norme antinfortunistiche, in caso di morte del contagiato – devono essere provati il “dolo” o la “colpa grave” dell’impresa nel non mettere in campo le misure di sicurezza obbligatorie.

Eppure passare attraverso un processo, se anche questo dovesse concludersi con l’assoluzione, è già di per sé un’esperienza penalizzante per l’azienda: basti pensare ai tempi lunghi della giustizia e alle implicazioni su tanti fronti. “È vero, dal punto di vista penale non c’è alcun automatismo e per arrivare a una condanna bisogna accertare che il datore abbia violato le norme di sicurezza”, spiega Aldo Bottini, Partner dello studio Toffoletto De Luca Tamajo e Responsabile del team di lavoro Covid.

“Ma è anche vero che verrà comunque aperto un fascicolo penale: questo significa che il datore di lavoro, anche se alla fine sarà assolto, nel frattempo sarà stato sottoposto a un’indagine, avrà rischiato il sequestro dell’attività e non avrà potuto partecipare ad appalti pubblici in quanto sotto processo”. “Anche solo a livello di reputazione si tratta di un danno d’immagine”, precisa Gian Filippo Schiaffino, Partner fondatore di Amtf.

La proposta di Bottini è quella di sganciare la tutela assicurativa del lavoratore dalla responsabilità penale del datore di lavoro: “Ha ragione chi chiede una norma che eviti l’automatismo tra infortunio e apertura di un fascicolo penale. Allo stato attuale delle cose rischiamo di avere mezzo mondo produttivo italiano sotto inchiesta”. Sul fronte delle responsabilità civili del datore di lavoro, come confermano anche Colombo e Pederzoli di BonelliErede, una recente norma, l’art. 29bis della legge di conversione del Decreto Liquidità, prevede che i datori di lavoro adempiono all’obbligo di cui all’articolo 2087 del codice civile mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo del 24 aprile 2020, nelle linee guida del governo, nei protocolli di settore, adottando e mantenendo le misure in essi previste.

“Una norma” fanno notare ancora Colombo e Pederzoli, “che lascia comunque spazio a valutazioni circa la corretta ed effettiva applicazione dei molteplici protocolli, i quali, accanto a previsioni specifiche, contengono anche una serie previsioni aperte e raccomandazioni, in primis quella di integrare le misure ‘con altre equivalenti o più incisive secondo le peculiarità della propria organizzazione’”.

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Manuela Gatti

Classe 1993, nata e cresciuta nella provincia milanese, è laureata in Lettere presso l’Università Statale di Milano. A qualche anno di cronaca locale è seguito un biennio alla Scuola di Giornalismo Walter Tobagi di Milano, dove ha svolto il praticantato giornalistico. Giornalista professionista dal 2019, attualmente lavora come freelance a Milano, collaborando con quotidiani, siti e periodici nazionali.

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