Uomo e padre, il mio dovere per cancellare la disparità di genere
Nel rapporto di Save the children, la foto impietosa di un Paese non per donne.
È da poco uscito il nuovo report di Save the children dal titolo Le equilibriste – La maternità in Italia 2020: è una fotografia impietosa di un Paese che non fa più figli (nel 2019 siamo scesi a 435mila nati, nuovo record negativo per l’Italia), e che alimenta la disparità di genere nei tassi di occupazione, nelle retribuzioni e nel tempo dedicato alla cura della famiglia. Niente di nuovo, se non l’ennesimo bagno di realtà.
Il report si può scaricare a questo link. Piuttosto che concentrarmi sui numeri (per la verità noti), la mia personale lettura è avvenuta attraverso le vignette contenute nel rapporto, firmate da Maria Chiara Gianolla. Si legge, nella nota alle illustrazioni, che “nascono dalla volontà di rappresentare, con un tono leggero, una serie di situazioni che molte mamme di trovano a vivere in Italia”. E poi è precisato che “le scene disegnate riflettono problematiche ricorrenti e comuni delle mamme”.
Il capitolo 1, dedicato a “L’Italia delle culle vuote”, si apre con una giovane donna seduta di fronte alla scrivania di un uomo (imprenditore, Direttore del Personale…) durante un colloquio di lavoro; la vignettista ci tiene a far sapere che la donna ha frequentato l’università di Oxford e dalle parole del suo interlocutore si capisce come sia dotata di un curriculum interessante. L’uomo, pur riconoscendole le competenze certificate da prestigiosi atenei, ci tiene, però, a sapere se chi gli sta davanti ha dei figli; la questione è così importante che fa due volte la stessa domanda per sincerarsi della risposta. Come ho scritto anche nel libro Genitori al lavoro. Il lavoro di genitori (ESTE, 2019) raccogliendo una testimonianza reale, la ‘paura’ di assumere donne in età da figli (se non addirittura già con prole) non appartiene solo agli uomini delle Risorse Umane.
Per rappresentare “I tempi delle madri” (capitolo 2), la vignetta è una scena familiare nella quale una donna sta finendo di prepararsi per uscire di casa e raggiungere l’ufficio – “per una riunione in direzione” alla quale non può “assolutamente fare tardi” – mentre un uomo, già vestito, chiede, indicando un bimbo comodamente seduto per terra: “E lui chi lo porta all’asilo?”. Al di là dell’effetto caricaturale, serve ammettere che è – ahi noi – un atteggiamento comune quello di dare per scontato che la cura dei figli possa avere un impatto sulla vita professionale delle donne piuttosto che su quella dell’uomo. E la conferma arriva dall’Ufficio statistico europeo che, come scritto nel report, evidenzia come l’83% degli uomini ammette che i doveri di cura dell’infanzia non hanno avuto alcun effetto sul lavoro (per le donne il dato è 61%).
Sempre sul fronte del gap di genere (il capitolo 3 è titolato “La faticosa rincorsa della parità”) si concentra la vignetta in cui una donna sta ultimando la valigia – ovviamente chiusa di fretta e furia, come testimoniato dagli abiti che fuoriescono dal bagaglio – mentre l’uomo tiene in braccio un bimbo addormentato, sincerandosi di quanto tempo starà via la compagna. E poi pensa: congedo e ferie non li chiederà; e la suocera in vacanza. Quindi l’idea: “Come hai detto che si chiama la vicina?”.
Donne sempre più multitasking
Il capitolo 4 si concentra su “Politiche e servizi per la prima infanzia”: in questo caso una donna è a colloquio con la direttrice di un asilo nido – che, ironia della sorte, si chiama “Per tutti” – che la informa sul fatto che non c’è posto per il figlio, “anche quest’anno”, in quella struttura. E poi, tra il serio e il faceto, le dice: “E facciamoli lavorare un po’ ‘sti nonni, no?”. Il tema è molto attuale e non solo per l’emergenza sanitaria che ha imposto la chiusura delle scuole. Save the children ricorda che il grado di copertura e di offerta dei servizi per la prima infanzia è ancora inferiore all’obiettivo del 33% di presa in carico stabilito al livello europeo nel 2002.
La vignetta più rappresentativa è, a mio giudizio, quella del capitolo 5 (“Essere mamma ai tempi del Coronavirus”). Seduta al tavolo, davanti a un Pc, c’è una donna – in abiti da ufficio nella metà superiore e tenuta casalinga per il resto – impegnata in una videocall con il capo, mentre è costretta a gestire quattro figli: uno è cullato con la gamba; un altro tira la coda al gatto, che non apprezza; una è tenuta per i capelli; l’ultimo reclama aiuto per connettersi alla lezione online. “La mamma adesso ha da fare… aspetta solo un attimo”, dice la donna.
È una scena che mi ha riportato indietro nel tempo di pochi mesi, quando la pandemia mi ha costretto a lavorare da casa, condividendo gli spazi di vita e di lavoro con il resto della famiglia. E, ovviamente, anche nel mio caso non ero certo io quello che doveva fare l’equilibrista tra il ruolo di padre e quello di lavoratore. Ammetto di aver fatto più di una call con mio figlio di nove mesi tra le braccia per evitare che le sue urla mi impedissero di parlare con l’interlocutore, ma per la stragrande maggioranza del tempo ho goduto di una straordinaria tranquillità utile per lavorare.
Il report è ricco di dati e statistiche, oltre che di proposte finali per ripensare le politiche per una solida ripresa del Paese. Possiamo continuare a stupirci e indignarci leggendo le cifre impietose della nostra società. Oppure possiamo iniziare, soprattutto noi uomini, a non vergognarci se il pianto di nostro figlio entra nell’audio della call disturbando la riunione o se la figlia fa irruzione sullo schermo brandendo una bambola per chiederci di aggiustarla. Se il lavoro è parte della vita, allora lasciamo che anche la vita sia parte del lavoro. Magari saremo meno performanti. Ma avremo fatto la nostra parte per un obiettivo più importante.
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