Senza la Direzione HR, la sostenibilità è una parola vuota
L’azienda non è chiamata solo a offrire lavoro oggi, ma anche nel domani.
Mauro De Martini ricorda, nella sua rubrica, la metafora presentata nell’Apologia di Socrate: il filosofo paragona se stesso a un tafano, che punge un cavallo grande e nobile. Potremmo dire che questa è la funzione di una rivista indipendente. La comunità di coloro che si occupano di gestire le risorse umane – o come è forse meglio dire: persone al lavoro – merita stimoli e suggestioni. Speriamo che Persone&Conoscenze aiuti a connettere argomenti e ad andare oltre le urgenze quotidiane, guardando al senso sociale e politico del proprio lavoro.
Con questo spirito affrontiamo, in questo numero, il tema della sostenibilità. Se ne fa un gran parlare. Come sempre, i concetti si affermano per precisi motivi storici, culturali, economici. Ma presto, intesi superficialmente e abusati, gli stessi concetti rischiano di apparirci vuota retorica. Se tutto ormai è sostenibile, la sostenibilità perde significato: Environmental sustainability, Sustainable development, Sustainable economy, Sustainable business, Sustainable management, Sustainable finance e Sustainable technology. Ovviamente, anche Sustainable Human Resource management. Sembra, quest’ultima, una tra le tante declinazioni del generale concetto di sostenibilità. Ma, a ben guardare, possiamo vedere come il legame tra sostenibilità e Direzione del Personale sia più profondo, radicale. Si può dire che la Direzione HR si occupa essenzialmente di sostenibilità.
Gro Harlem Brundtland, medico, aveva 42 anni quando – prima donna e più giovane di tutti i predecessori – è stata nominata Primo Ministro della Norvegia. Due anni dopo, nel 1983, il Segretario Generale delle Nazioni unite la nominò Presidente della World commission on environment and development. La Commissione pubblicò, nell’aprile 1987 il rapporto Our common future. Qui si parlò per la prima volta di “Sustainable development”, secondo cui è sostenibile lo “sviluppo che soddisfa i bisogni della generazione attuale senza compromettere la capacità di quelle future di soddisfare i propri”. L’economista Robert Solow, nel 1992, è stato più preciso. La sostenibilità impegna a lasciare alla prossima generazione “tutto ciò che è necessario per avere uno standard di vita almeno pari al nostro”. Ma, ha fatto notare Amartya Sen – anch’egli economista – in The Idea of Justice (2009) “ci si può ancora domandare se l’ambito coperto dagli ‘standard di vita’ sia adeguatamente comprensivo”. Ciò che merita tutela è “la libertà e la capacità delle persone di ottenere – e salvaguardare – ciò a cui essi danno valore e a cui, per qualche ragione, attribuiscono importanza”.
Così Sen ci toglie l’alibi e ci impone una profonda responsabilità. Non sta a noi definire cosa sarà considerato importante dai nostri figli e da ogni generazione futura, né gli standard di vita. A noi compete la responsabilità di lasciare agli altri lo spazio per scegliere in libertà quale vita vivere.
I Direttori del Personale – e i professionisti delle Risorse Umane tutti – hanno il difficile compito di trovare l’equilibrio tra le esigenze organizzative, la necessaria tensione verso gli scopi dell’azienda, e l’offerta ai lavoratori di spazi di libertà e di autonomia. Ogni lavoratore è chiamato a sentirsi responsabile, ovvero a partecipare al comune orientamento alla sostenibilità. Allo stesso tempo ricade sulle spalle del Direttore HR e dei professionisti del Personale in genere, il mantenimento di una promessa rivolta alle generazioni future: l’azienda non è chiamata solo a offrire lavoro oggi, ma anche nel domani.
In particolare, conviene ricordare che l’azione sostenibile della Direzione del Personale si manifesta nel Knowledge management: la Direzione HR ha la responsabilità di conservare e diffondere le conoscenze di coloro che lavorano in azienda e di chi vi ha lavorato in tempi passati. Queste conoscenze sono il dono che viene offerto alle nuove generazioni: a chi viene assunto oggi e a chi in futuro entrerà a far parte dell’azienda.
Una connessione altrettanto importante lega sostenibilità e welfare. Il benessere è, in fondo, la garanzia di uno spazio di tranquilla libertà. Ciò che va cercato è un giusto bilanciamento tra le tutele e l’invito ad assumersi responsabilità personali. Perciò è importante ripercorrere la storia del welfare, che accompagna dal 1800 l’evoluzione dell’industria e i mutamenti nel mercato del lavoro. La storia ha visto l’emergere di tre fonti di politiche di welfare: l’azione – diretta o indiretta tramite finanziamenti e sgravi fiscali – statale e di enti pubblici; l’azione dei datori di lavoro; l’azione delle organizzazioni dei lavoratori. È importante guardare alla storia per progettare il welfare del futuro.
Infine, merita di essere ricordato qui un tema emerso in questo numero (e che tratteremo ancora nei prossimi): le esperienze maturate lavorando nelle condizioni di distanziamento sociale imposte da virus. Aspetto essenziale è che si tratta di esperienze vissute allo stesso modo da ogni lavoratore. Poche occasioni come questa ci aiutano a ricordare che anche i manager sono lavoratori. Tutti, nessuno escluso, siamo stati costretti a lavorare in un modo nuovo.
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Francesco Varanini è Direttore e fondatore della rivista Persone&Conoscenze, edita dalla casa editrice ESTE. Ha lavorato per quattro anni in America Latina come antropologo. Quindi per quasi 15 anni presso una grande azienda, dove ha ricoperto posizioni di responsabilità nell’area del Personale, dell’Organizzazione, dell’Information Technology e del Marketing. Successivamente è stato co-fondatore e amministratore delegato del settimanale Internazionale.
Da oltre 20 anni è consulente e formatore, si occupa in particolar modo di cambiamento culturale e tecnologico. Ha insegnato per 12 anni presso il corso di laurea in Informatica Umanistica dell’Università di Pisa e ha tenuto cicli di seminari presso l’Università di Udine.
Tra i suoi libri, ricordiamo: Romanzi per i manager, Il Principe di Condé (Edizioni ESTE), Macchine per pensare.
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