Sfatiamo il mito dei fannulloni della Pubblica amministrazione

Ci sono troppi dipendenti pubblici, ma non si assumono le professionalità tecniche necessarie.

Il politico Renato Brunetta è convinto che i pubblici dipendenti siano dei pelandroni. Il comportamento del vigile del Comune di San Remo, a suo tempo licenziato perché fotografato mentre timbrava il cartellino in mutande, è stato riconosciuto dalla magistratura come corretto e quindi, presumibilmente, dovrà essere reintegrato.

Il dipendente pubblico lamenta che il suo stipendio sarebbe più basso di quello di chi lavora nel settore privato. Se si analizza bene la questione però, probabilmente, questa opinione diffusa non è poi tanto vera. Conosco diverse signore che hanno deciso di passare dal settore privato al pubblico nella speranza di aver più tempo da dedicare ai figli e alla famiglia, ignorando il mio parere che sconsigliava loro di farlo. Tutte queste mie amiche si sono amaramente pentite del passaggio perché l’impegno richiesto nel pubblico è molto più pesante di quello del settore privato. Il clima dell’ambiente pubblico risulta inoltre più stressante.

Conosco anche molti dipendenti che hanno un secondo lavoro, più o meno ufficiale, non tanto per integrare lo stipendio, quanto per provare a se stessi che sono capaci di offrire una prestazione qualificata, cosa che nel settore pubblico spesso non è possibile. Si tratta di una questione di autostima e orgoglio professionale.

È dal 1993 (dal D.lgs 29/1993 con cui si sarebbe dovuto ‘privatizzare’ il rapporto d’impiego pubblico) che si tenta di premiare la produttività. Sulla base della mia esperienza come membro di diversi nuclei di valutazione, posso testimoniare che è molto difficile (per la logica intrinseca del nostro Diritto amministrativo) separare la valutazione del rendimento da quella della fedeltà. Si finisce, quindi, spesso per premiare lo yes man e non il lavoratore più bravo. La situazione è peggiorata da quando i nuclei di valutazione sono stati trasformati in Organismi indipendenti di valutazione (Oiv) sottoposti alla tutela dell’Autorità nazionale anti corruzione (Anac).

Che il settore pubblico sia uno dei grandi problemi del Paese è innegabile. Basta comparare i tempi di risposta delle nostre Pubbliche amministrazioni con quelli dei nostri partner europei. La Pa slovacca, per esempio, paga una fattura in cinque giorni lavorativi. Il fatto è che le diagnosi e le cure che vengono proposte per migliorare la nostra Amministrazione fanno riferimento a quelle stesse mappe cognitive su cui si basa il modello amministrativo corrente. Soprattutto non bisogna pensare che lo scarso rendimento della nostra Pa sia un problema di etica.

La nostra Amministrazione si è consolidata subito dopo l’Unità, soprattutto nell’epoca del politico Francesco Crispi. Allora l’Italia aveva circa 27 milioni di abitanti (oggi il numero è più che raddoppiato), il settore pubblico era responsabile del 4% del Pil (oggi del 47%) e il 78% di questa porzione veniva dedicato alla macchina militare (mentre oggi non si arriva al 2%).

La nostra Pa si è formata e consolidata quando la funzione fondamentale dello Stato era quella di garantire legalità e ordine pubblico. Oggi, accanto alla garanzia dell’ordine pubblico, lo Stato deve farsi carico della gestione di infrastrutture e della fornitura di servizi.

All’evoluzione delle funzioni dello Stato la macchina amministrativa ha fatto fronte aumentando gli organici, ma continuando ad assumere personale con competenze esclusivamente giuridiche e non preoccupandosi di assumere le professionalità tecniche necessarie per gestire infrastrutture ed erogare servizi, ampliando le proprie strutture e decentrando.

Che si stia cercando di capire e risolvere problemi nuovi usando mappe cognitive obsolete è riprovato. Si continua a credere, infatti, che abbiamo troppi dipendenti pubblici –quando dai dati Ocse risulta che, in proporzione alla popolazione, abbiamo circa la metà dei dipendenti pubblici della Francia e comunque meno di Germania e Stati Uniti– che abbiamo troppi ministeri –anche in questo caso, meno di Francia e Germania– e che il decentramento, infine, sia la causa dei nostri mali, optando come soluzione quella di abolire le Regioni e riconcentrare tutto sulla capitale.

Il fatto è che l’evoluzione dei compiti della macchina statale avrebbe dovuto richiedere una riconsiderazione ab imis fundamentis dei princìpi su cui si basa la nostra Pa, ma questa operazione non è stata fatta. Ne consegue che le diagnosi e le cure che vengono proposte, di solito, aggravano il problema. Sarebbe dunque necessario fare un salto di qualità, ma purtroppo non vedo questa consapevolezza.

L’articolo integrale è pubblicato sul numero di Luglio-Agosto di Persone&Conoscenze.
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lavoro, Pubblica amministrazione, fannulloni, riforma


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Massimo Balducci

Massimo Balducci ha diviso la sua attività tra ricerca accademica, formazione e consulenza di organizzazioni pubbliche e private. Già Full Professor di Organization Theory allo European Institute of Public Administration di Maastricht e Docente di Auditing e Controlling al “Cesare Alfieri” di Firenze, Docente stabile di European Public Management alla Scuola Nazionale di Amministrazione (Sna) di Roma. È stato Vicepresidente dello European Network of Training Organizations for Regional and Local authorities (Ento). Collabora con il Consiglio d’Europa, lo United Nations Development Program e la Banca mondiale a vari programmi di assistenza a Pubbliche amministrazioni.


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