Collaborazione e adattamento: sopravvivere alle crisi emergenziali

Una grave pandemia e un Paese impreparato, ma la crisi ha rappresentato una grande opportunità di collaborazione.

Era un normale giorno di tardo inverno, in cui la natura dava i primi segnali di risveglio in attesa dell’imminente primavera e ci siamo svegliati di buon mattino come di consuetudine: la sensazione era quella di essere entrati in una dimensione parallela, dove tutto sembrava cambiato. In realtà, là fuori non c’era stata nessuna rivoluzione o invasione aliena e, più in generale, non era cambiato niente.

Ciò che effettivamente è mutato il 10 marzo 2020 è il nuovo posizionamento assunto dall’essere umano e dalla sua scala di priorità all’interno dell’ordine naturale delle cose: abbiamo realizzato (o almeno lo ha fatto la maggior parte di noi), non senza sbigottimento e progressivo incremento di ansie e timori, che eravamo più deboli di quanto pensassimo, che l’onnipotenza e l’onniscienza non risiedono nell’uomo.

Con il Dpcm del 4 marzo 2020 le scuole di ogni ordine e grado erano già state chiuse, ma da quel momento iniziò la ‘serrata totale’. Che il maledetto virus fosse stato causato da fattori naturali e che non fosse, invece, opera dell’uomo ha ovviamente la sua rilevanza, ma per la percezione di quel momento poco importava. Il fatto oggettivo è che, hic et nunc, comprensibilmente mosse più dall’emotività che dalla razionalità, le persone che avrebbero dovuto decidere come reagire a questa piaga ormai reale, ancor prima di darsi una spiegazione di come fosse potuto accadere, si sono persuase che l’unico modo per proteggerci fosse quello di chiudere, dopo le scuole e le attività sportive e culturali (per prevenire il rischio di assembramenti), anche tutti gli esercizi commerciali e artigianali (12 marzo) e la stragrande maggioranza delle attività produttive e manifatturiere del Paese (22 marzo), perché potenziali focolai.

Le uniche eccezioni erano costituite dagli esercizi che trattano beni di prima necessità (supermercati, discount, botteghe alimentari, farmacie, edicole, tabacchi, benzinai, ottici, ferramenta, negozi di elettronica, lavanderie e pompe funebri) e da tutte le imprese racchiuse in quegli 80 codici allegati al Decreto (dall’Agricoltura all’Industria Alimentare, dalla Chimica Farmaceutica ai Rifiuti, fino al Carbone).

L’unica strada per uscire dalla crisi sanitaria in essere – ci hanno detto – sarebbe stata rinchiuderci nelle nostre case evitando qualsiasi contatto con l’esterno se non ‘protetti’ e per ragioni assolutamente irrinunciabili. E così è stato, nonostante quello fosse il periodo in cui un gran numero (non immaginavamo ce ne fossero così tanti) di infettivologi e virologi, nel salire alla ribalta delle cronache, asserendo tutto e il suo contrario, si schieravano taluni a favore del ‘chiudiamo tutto’, talaltri a favore dell’opposto, sostenendo che fosse una normale influenza, solo più aggressiva.

Eravamo disorientati, impauriti, molti di noi erano arrabbiati, ma comunque tutti in balìa dell’onda mediatica che ci aggiornava, in modo puntuale, sulla crescita esponenziale della curva dei contagi e, ahinoi, sui decessi.

Le aziende di fronte alle nuove regole

Nel frattempo i Dpcm si susseguivano (alla fine di marzo eravamo a sette) e il numero dei vari comitati tecnico-scientifici e dei Commissari per la gestione della crisi avevano una diffusione proporzionale a quella del virus. Il cittadino medio continuava a faticare nel farsi un’idea chiara della situazione, ma nel frattempo assaporava il risorgere dell’antico istinto di sopravvivenza.

E sarà proprio per questo che solo pochi giorni dopo la chiusura totale, man mano che la razionalità istintiva si faceva spazio nei meandri dell’ansia indotta e mentre molti ‘illuminati’ già ipotizzavano che sarebbe durata a lungo –“forse fino a dicembre”– e che la scuola sarebbe (probabilmente) ripartita a settembre, ma con modalità didattiche del tutto diverse, alcuni, solo un poco più consapevoli degli altri, hanno iniziato a domandarsi: “Ci saremo anche salvati da questa malattia tremenda, ma, seppur in buona salute, come faremo a risollevare il sistema economico italiano e, banalmente, mantenere le nostre famiglie?”. La risposta secondo la quale, per fare fronte all’emergenza, sarebbero bastati i 600 euro per partite iva e liberi professionisti non aveva tenuta reale, neanche se supportata dal diffuso ricorso alla Cassa integrazione in deroga con la causale speciale.

Ormai a molti appariva evidente che la pandemia sarebbe stata sconfitta, più o meno rapidamente, ma anche che i danni causati dallo stop, per un periodo così lungo, di quasi tutti i settori produttivi e di servizio avrebbero causato una ferita profonda e non rimarginabile a breve termine.

Questa consapevolezza, naturalmente propria anche del Consiglio dei Ministri, ha dato il via a tutta un’altra serie di Dpcm e provvedimenti urgenti, direttamente collegati a pubblicazioni settimanali di tabelle con codici Ateco autorizzativi che potevano subire variazioni anche nel volgere di poche ore (è il caso proprio del Dpcm 22 marzo), perché il Governo era pressato da forze e interessi che solo teoricamente avrebbero dovuto essere convergenti.

Invero abbiamo assistito a un continuo braccio di ferro tra le associazioni datoriali, che tentavano di non fermare completamente e/o far ripartire il sistema gradualmente, e i sindacati confederali nazionali, i quali, denunciando un clima di incertezza diffusa, si opponevano a una ripartenza graduale arrivando a minacciare uno sciopero generale per la tutela della salute dei lavoratori (ma il rischio è che per molti di loro, purtroppo, al termine di questo orribile periodo, il lavoro potrebbe non esserci più).

In questa situazione in continuo divenire, in cui il nostro Paese improvvisamente colpito e quindi impreparato ha tuttavia reagito abbastanza prontamente, le aziende hanno cercato di muoversi con molta cautela cercando di interpretare nel modo più corretto le normative nazionali, talvolta non in linea con le ordinanze delle diverse Regioni, e di dar luogo a procedure e sistemi organizzati per portare avanti attività ridotte dove possibile. Oppure si sono preparate alla ripartenza rispettando tutte le indicazioni e i vincoli del protocollo sanitario nazionale e dei protocolli regionali, interpretando nel contempo i suggerimenti e le varie circolari dell’Iss, nonché dell’Oms.

L’articolo integrale è pubblicato sul numero di Luglio-Agosto di Persone&Conoscenze.
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aziende, emergenza sanitaria, crisi, Covid


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Riccardo Grilli

Laureato in Economia, Riccardo Grilli ha iniziato il suo percorso nel settore Risorse Umane nell’Ufficio del Personale della Lucchini Servizi, società del Gruppo Lucchini, con mansioni di amministrazione e gestione del personale. Nel 1999, accettando un ruolo più gestionale, è diventato HR Manager nello Stabilimento di Rovere (BG), appartenente al Gruppo Lucchini; nel 2003 ha ricoperto la stessa posizione a Piombino. Dal 2011 è invece CHRO dello Stabilimento di Piombino, oggi parte del Gruppo multinazionale Jsw Steel.


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