La formazione è il vaccino per il lavoro

Centomila occupati in meno da un mese all’altro. Da novembre a dicembre del 2020 l’equivalente di una città come Piacenza si è trovato senza lavoro. Peggio ancora il confronto con il 2019: quasi 500mila occupati in meno, più della popolazione di Bologna. Un vaccino, o quanto meno una cura, contro la disoccupazione però esiste: la formazione.

L’85% dei lavoratori italiani ha dichiarato di aggiornarsi con costanza e quindi ritiene di avere le competenze per trovare impiego in un’altra azienda o perfino in un altro settore. Molto buona anche la percentuale (79%), di chi si considera pronto per affrontare le evoluzioni digitali del lavoro. Dati molto superiori alle altre grandi nazioni europee.

Ad affermarlo è il Randstad Workmonitor, l’indagine semestrale sul mondo del lavoro di Randstad, operatore mondiale nei servizi HR, che ha analizzato la percezione dei lavoratori su competenze professionali e ambiente di lavoro durante la pandemia. Una ricerca condotta in 34 Paesi del mondo su un campione di oltre 800 dipendenti di età compresa fra 18 e 67 anni per ogni nazione.

Il ruolo dell’imprenditore è considerato centrale

Dall’indagine è emerso potente il ruolo che gli italiani attribuiscono al proprio datore di lavoro. L’imprenditore è infatti indicato da un lavoratore su due come responsabile della formazione sul posto di lavoro. Si tratta di una visione molto diversa dalla media mondiale, dove invece predomina la condivisione della responsabilità formativa tra datore e dipendente. In Italia invece la condivisione incontra il favore di un lavoratore su tre.

Ancora più basso è chi attribuisce questo impegno solo al dipendente (16%) o ai sindacati (1%). L’imprenditore è chiamato in causa perfino per la formazione volta a trovare un diverso posto di lavoro all’uscita dalla crisi generata dal Covid-19: il 47% gli affida questa responsabilità. Seguono molto distanziati il Governo (24%), i dipendenti stessi (21%) e i sindacati (8%).

“È importante che dal campione delle persone coinvolte nella ricerca sia stata riconosciuta la centralità della formazione come strumento di crescita personale e di risposta alla crisi”, ha affermato Fabio Costantini, COO di Randstad HR Solutions. “Ed è un segnale di fiducia per il futuro il fatto che due lavoratori su tre affermino di disporre già di una robusta e sufficiente preparazione per affrontare gli imprevisti. Ma questa è anche una responsabilità, per tutti”.

Secondo il manager, nel pieno della pandemia, è fondamentale che le aziende mettano al centro processi di upskilling e reskilling come strumento di crescita e riqualificazione della forza lavoro, oltre che come sostegno ai percorsi di transizione di carriera che dovessero rendersi necessari. “In una fase di allungamento della carriera lavorativa, nel pieno della trasformazione digitale, è importante che venga anche dagli stessi lavoratori l’impegno alla manutenzione, all’aggiornamento e alla riqualificazione costante delle proprie competenze”.

La formazione rende l’azienda ‘inclusiva’

A tanto onere richiesto ai datori di lavoro corrisponde per fortuna anche un po’ di onore. Due lavoratori su tre, soprattutto i più giovani, hanno dichiarato di aver percepito il sostegno emotivo e mentale del loro datore di lavoro durante la pandemia. In generale i dipendenti italiani sembrano trovarsi bene nelle loro organizzazioni: il 77% le ritiene “inclusive”.

Buona parte di questa inclusività viene proprio dalle opportunità di formazione, al primo posto (36%) nella classifica di cosa cercano i lavoratori dentro l’impresa. Seguono una forza di lavoro diversificata (34%), la creazione di ambiente e spazi di lavoro inclusivi (30%), l’incoraggiamento dei gruppi di risorse (28%) e la presenza di posizioni di leadership di persone provenienti da contesti differenti (24%). Meno importanti, poi, vengono la responsabilità sociale d’impresa sotto forma di donazioni o raccolte fondi, la collaborazione con organizzazioni senza scopo di lucro, la pubblicità delle politiche sull’inclusività, la pubblicità del datore di lavoro e – in ultimo, poco considerate – le giornate di volontariato dei dipendenti.

“L’inclusività è un elemento sempre più sentito come ‘bene comune’ dalle persone, un fattore chiave per il benessere lavorativo, ma anche la crescita e lo sviluppo”, ha commentato Costantini. “Le organizzazioni italiane negli ultimi anni hanno compiuto grandi passi avanti in questo ambito e oggi c’è attenzione alla creazione di ambienti, spazi, gruppi di lavoro inclusivi. Ma è necessario un ulteriore progresso in termini di ‘democrazia aziendale’ affinché ambiente e persone si riflettano pienamente l’uno nell’altro”.

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