Senso_Smart_working

Se lo Smart working dimentica il senso del lavoro

Conviviamo con la pandemia di Covid-19 da un anno. E dallo stesso tempo parliamo incessantemente di Smart working. Certo, è stata la soluzione organizzativa più idonea per far fronte al lockdown nazionale di due mesi della primavera 2020 e poi per accelerare la ripresa assicurando con facilità il distanziamento sociale: tutti abbiamo sperimentato, almeno nella chiusura totale del Paese, il Remote working d’emergenza. Hanno fatto eccezione i (tanti) lavoratori impossibilitati a remotizzare la propria mansione e la cui opera ha consentito a circa 10 milioni di persone di starsene tranquillamente a casa a svolgere il lavoro quotidiano: si pensa sempre ai sanitari, ma nel lockdown hanno lavorato in presenza anche gli operai nelle fabbriche, gli addetti della Gdo, i rider delle compagnie di food delivery, le forze dell’ordine…

Dopo l’ubriacatura da Smart working, a maggio 2020 l’allentamento delle misure emergenziali di sicurezza ha consentito la riapertura delle aziende; molte hanno provato a ripartire con il lavoro in presenza, tantissime hanno proseguito con le attività esclusivamente da remoto, e poche hanno cercato una soluzione ibrida, provando ad aggiornarne un modello organizzativo nel quale lo Smart working fosse adeguato al contesto e non fosse solo la soluzione più semplice per rispettare il distanziamento sociale.

Intanto, però, è nato un ‘movimento’ pro Smart working – meglio sarebbe dire a favore del lavoro da casa, visto che non ci sono altri ambienti da dove svolgere le attività – che elogia pregi e virtù del lavoro da remoto. Per esempio si spiega che permette la ripopolazione dei borghi – prima abbandonati in favore delle città dove hanno sede le aziende – che consente alle persone di riappropriarsi della dimensione privata della vita, che agevola lo svolgimento dell’attività fisica, che azzera le perdite di tempo degli spostamenti casa-lavoro, che aumenta la produttività, che potenzia la concentrazione…

Gli stessi sostenitori dello Smart working ammettono che c’è pure qualche problema. L’isolamento sarà certamente utile ad aumentare la produttività, ma alla lunga genera solitudine e fa perdere il senso di appartenenza a un gruppo; lavorare da casa corrisponde poi all’aumento delle spese legate al maggior consumo di riscaldamento, elettricità, rete internet… Qualcuno ha persino lamentato il fatto di non poter più bere il caffè alla macchinetta dell’ufficio pagato dall’azienda, finanche il dover pagarsi la carta igienica che – usando esclusivamente il bagno di casa – si esaurisce più rapidamente (sembra uno scherzo, ma nei Paesi Bassi c’è stata una proposta per accollare al datore di lavoro pubblico anche il costo della carta igienica casalinga durante lo Smart working).

Sulle pagine del nostro quotidiano abbiamo pubblicato la storia di uno smart worker. Si tratta di un racconto nel quale tanti si riconosceranno e che accomuna numerosi lavoratori da remoto. Partito dal Sud Italia, ben prima della pandemia, l’autore dell’articolo si era trasferito a Milano per lavoro; grazie allo Smart working ha potuto dire addio al cielo plumbeo della città per trasferirsi in Centro Italia. Grazie allo Smart working ora può “rinunciare ad almeno un’ora al giorno persa per gli spostamenti sui mezzi pubblici”, utilizzando quest’ora per “godersi la giornata”. Lo stesso smart worker entusiasta della nuova modalità di lavoro riconosce tuttavia alcuni limiti dell’esperienza, puntando l’attenzione soprattutto sulla mancanza di socializzazione e ‘accusa’ il management di non aver una cultura adeguata per gestire i team in Smart working.

Possiamo limitarci a raccontare che lo Smart working è una soluzione ideale per correre in pausa pranzo, per coltivare l’orto al pomeriggio, per leggersi un libro a metà mattina… oppure possiamo renderci conto che non serve pensare solo all’aspetto legato alla conciliazione vita-lavoro, come se il lavoro non fosse una dimensione fondamentale da cui passa l’identità dell’individuo. Serve tornare a ricordare che il lavoro è una imprescindibile parte costitutiva della nostra vita: piacere, manifestazione di sé, fonte di relazioni sociali, costruzione del mondo. E dunque ha bisogno di spazi condivisi per esprimersi.

Un’occasione per l’evoluzione organizzativa

Anche le aziende – è certo – devono fare la loro parte. Nel suo ultimo libro La vita non è uno Smart working (ESTE, 2020), Pier Luigi Celliospite della puntata del 26 febbraio 2021 di PdM Talk in cui si è parlato proprio di lavoro agile – spiega che le organizzazioni devono rendersi conto che ciò che ha “trionfato per decenni come filosofia e come metodo manageriale non è l’unica soluzione possibile”. E sempre citando Celli, “la crisi arriva salvifica, per inquietare il pensiero, mettere in dubbio, deviare, rimettere in discussione, provare a vedere le cose da un’altra prospettiva”.

Ma attenzione perché, continua l’autore del libro, “non sarà lo Smart working di per sé che cambierà il grigiore delle prevenzioni e delle paure in sospeso, né che renderà automaticamente belle e innovative da solo le nostre organizzazioni“. Riconoscendo che il lavoro a distanza è la cartina di tornasole per verificare quante potenzialità inespresse le imprese avessero trascurato negli anni e per rivedere convinzioni operative che si erano andate ormai ampiamente logorando, l’ex Direttore Generale della Rai sottolinea che le aziende hanno oggi “la possibilità di venire a capo di situazioni tanto drammatiche senza limitarsi a fronteggiare l’emergenza con soluzioni improvvisate“.

Celli – ma con lui anche gli altri ospiti della stessa puntata di PdM Talk trasmessa il 26 febbraio 2021 – riporta l’attenzione sugli uffici, considerati luoghi da abitare, da riempire di senso e di valori. “La rottura dei perimetri aziendali, provocata dalla dislocazione del lavoro in remoto, non è solo un fatto logistico o un escamotage”, scrive l’autore del libro: essa ha contenuti simbolici potenti perché tra l’altro i confini aziendali, come ogni confine, istituiscono per chi è all’interno un’identità precisa.

Se ci limiteremo a dare spazio all’entusiasmo degli smart worker che ‘guadagnano’ tempo per sé semplicemente perché non devono andare in ufficio e non si inizierà a considerare la necessità di cambiamento più complesso, perderemo un’occasione. Se così non fosse, i lavoratori potranno certo continuare a lavorare da ogni luogo, ma saranno sempre più fornitori d’opera piuttosto che membri di un gruppo . Forse, letto in questo modo, lo Smart working potrebbe sembrare meno affascinante, ma di certo sarà più efficace e fedele al suo senso più profondo.

work life balance, Smart working, lavoro agile, conciliazione vita-lavoro


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Dario Colombo

Articolo a cura di

Giornalista professionista e specialista della comunicazione, da novembre 2015 Dario Colombo è Caporedattore della casa editrice ESTE ed è responsabile dei contenuti delle testate giornalistiche del gruppo. Da luglio 2020 è Direttore Responsabile di Parole di Management, quotidiano di cultura d'impresa. Ha maturato importanti esperienze in diversi ambiti, legati in particolare ai temi della digitalizzazione, welfare aziendale e benessere organizzativo. Su questi temi ha all’attivo la moderazione di numerosi eventi – tavole rotonde e convegni – nei quali ha gestito la partecipazione di accademici, manager d’azienda e player di mercato. Ha iniziato a lavorare come giornalista durante gli ultimi anni di università presso un service editoriale che a tutt’oggi considera la sua ‘palestra giornalistica’. Dopo il praticantato giornalistico svolto nei quotidiani di Rcs, è stato redattore centrale presso il quotidiano online Lettera43.it. Tra le esperienze più recenti, ha lavorato nell’Ufficio stampa delle Ferrovie dello Stato italiane, collaborando per la rivista Le Frecce. È laureato in Scienze Sociali e Scienze della Comunicazione con Master in Marketing e Comunicazione digitale e dal 2011 è Giornalista professionista.

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