Lo Smart working post pandemia nell’accordo Cifa-Confsal
“Smart working”, “telelavoro”, “lavoro da casa”, “lavoro da remoto”: se applicate al lavoro agile queste definizioni — ormai sulla bocca di tutti — sembrano non essere idonee. Perché ad avere portato le aziende verso la scelta di remotizzare le attività non è stata una decisione organizzativa, ma un’obbligatorietà trasversale. Lo Smart working, tuttavia, non è solo un modello da applicare in emergenza, e l’accordo interconfederale nazionale per la regolamentazione del lavoro agile siglato dalla Confederazione italiana federazioni autonome (Cifa) e la Confederazione generale dei sindacati autonomi dei lavoratori (Confsal) a fine febbraio 2021 vuole finalmente guardare oltre alla pandemia. Perché a tutti gli effetti quello di questi mesi non è stato vero lavoro agile, bensì una sua imitazione dettata dalla necessità.
L’accordo appena firmato – che vale per le aziende che applicano i contratti di Cifa e Confsal in diversi settori (Commercio, Terziario, Distribuzione, Servizi, Artigianato, Turismo, Pubblici esercizi, PMI metalmeccaniche, Agricoltura e Onlus) – ha preso avvio dal report sullo Smart working 2020 elaborato dal Centro Studi InContra, il cui obiettivo era identificare l’impatto della modalità di lavoro adottata nell’emergenza Covid sull’organizzazione del lavoro e capire se la letteratura scientifica sul lavoro agile avesse riscontro nella realtà.
L’indagine ha fornito risultati non indifferenti. Su tutti, il dato sul lavoro agile, che è raddoppiato rispetto al periodo pre-Covid. Non solo: se lo Smart working favorisce il bilanciamento tra sfera personale e sfera professionale, ha aumentato la produttività e l’autonomia e ha fatto risparmiare sui costi. Ma c’è anche l’altra faccia della medaglia, certamente prevedibile: con il lavoro da casa risulta più difficile coordinare i team, rispondere alle richieste in tempi standard, così come regolamentare il carico di lavoro.
Nell’accordo flessibilità, diritto alla disconnessione e formazione
Alla luce dei dati raccolti, Cifa e Confsal hanno così voluto stilare l’accordo per favorire lo sviluppo delle relazioni industriali guardando ai cambiamenti innovativi e tecnologici e ai modelli organizzativi aziendali a cui si va incontro, migliorando lo Smart working. In che modo? Regolamentandolo e supportando imprese e lavoratori dei settori di riferimento del Ccnl.
È scritto nell’accordo: “Le parti si sono attivate al fine di fornire tale supporto vedendo nel lavoro agile un grande impulso al raggiungimento di obiettivi personali e organizzativi, che devono essere concretamente realizzati attraverso un moderno sistema di relazioni industriali, fondato sull’alleanza tra impresa e lavoratore e sulla possibilità di quest’ultimo di partecipare attivamente alla vita aziendale”.
L’accordo elenca poi le modalità per rendere lo Smart working un modello organizzativo ‘corretto’ e appetibile (regolamentando strumenti, orari e monitoraggio), intendendolo come “una forma flessibile di esecuzione, su base volontaria, del rapporto di lavoro subordinato che consente al lavoratore di incrementare, attraverso una migliore organizzazione del lavoro e l’uso diffuso delle tecnologie digitali, la propria efficienza e produttività, all’insegna di un’effettiva conciliazione dei tempi di vita e dei tempi di lavoro; e allo stesso tempo permette alle imprese, di perseguire l’innovazione dei processi produttivi, con conseguente aumento della loro attrattività e competitività nel mercato”.
Non mancano nell’accordo una sezione dedicata al diritto alla disconnessione (fondamentale per non rischiare di cadere nella reperibilità costante e non regolamentata) e il riconoscimento di indennità per i costi strumentali e di connessione, spesso a carico del lavoratore. Per quanto riguarda la formazione applicata al lavoro agile, Cifa e Consfal raccomandano di prevederla ancor prima di passare alla modalità Smart working.
Valutare le incognite legate ai costi sommersi dello Smart working
Ma basterà tutto questo per rilanciare lo Smart working? Non secondo Ernesto Di Seri, Responsabile dell’area Legislazione e Giurisprudenza del Lavoro presso l’Unione degli Industriali di Varese e docente presso l’Università Liuc. “Sarò lapidario, ma sullo Smart working non possiamo ancora dire niente. La legge resterà invariata o si modificherà? È questo il passo decisivo. In ogni caso, ci sarà uno scontro di filosofie, con chi cercherà di fare innovazione e chi guarderà al Novecento; probabilmente ne usciremo con un compromesso”.
Il problema, secondo Di Seri, è però nell’attitudine. Perché la Legge 81 del 2017 – quella appunto che regolamenta il lavoro agile – potrà cambiare o meno, ma gli accordi vanno già in un senso “vecchio stile, cercando di assimilare il lavoro agile al lavoro tradizionale, mettendo tutele e orari. Ma non vengono presi in considerazione gli altri migliaia di problemi”. Uno su tutti? “I costi sottostimati; per esempio prima non si pagava certo la carta igienica ai lavoratori a casa”. E poi c’è la questione vaccino: si risparmierà sulle dosi di chi lavora da remoto perché non ne hanno bisogno, privilegiando coloro che non possono remotizzare la propria mansione? “In realtà c’è una catena di problemi sottovalutati. Gli accordi non sono niente di male, per carità, ma bisogna esserne consapevoli”, ammette Di Seri.
Chi ha ragionato prendendo come esempio lo Smart working della pandemia, insomma, ha fatto i conti sbagliati. Il lavoro agile è altro, e non il mero ‘lavorare da casa’ perché obbligati a farlo. “Meglio avere regole che aiutano tutti, una traccia in equilibrio tra innovazione e tutela senza fare tanti accordi individuali che poi non vengono gestiti da nessuno. Perché il lavoro agile cambia da settore a settore, da azienda ad azienda. E non sottovalutiamo il problema psicologico che ci sarà da gestire, ovvero la delusione dei lavoratori e degli imprenditori, che a oggi si aspettano qualcosa dallo Smart working”, prosegue l’esperto.
Questo “qualcosa” tuttavia è destinato a cambiare quando il lavoro agile non sarà più emergenza. Perché ci sono pro e contro, ma soprattutto potenziali costi che fino a ora non sono stati presi in considerazione. Ragiona Di Seri: “Se si trova un equilibrio ragionevole con i vantaggi che assolvono i costi, è un conto; ma se non abbiamo pensato ai costi dello Smart working, il calcolo è sbagliato. Al di là dell’entusiasmo dobbiamo essere più realisti se vogliamo andare avanti. Dopo l’innamoramento c’è l’amore. Il lavoro agile è così: dobbiamo gestirlo insieme e senza conflitti, perché se ognuno lo gestisce da sé arriveranno i giudici (come già accade) e far decidere a terzi è peggio”.
Sara Polotti è giornalista pubblicista dal 2016, ma scrive dal 2010, quando durante gli anni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore (facoltà di Lettere e Filosofia) recensiva mostre ed eventi artistici per piccole testate online. Negli anni si è dedicata alla critica teatrale e fotografica, arrivando poi a occuparsi di contenuti differenti per riviste online e cartacee. Legge moltissimo, ama le serie tivù ed è fervente sostenitrice dei diritti civili, dell’uguaglianza e della rappresentazione inclusiva, oltre che dell’ecosostenibilità.
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