Il mio collega è un bullo
Di solito se ne parla riferendosi all’età adolescenziale. Ma il bullismo sembra dilagare anche negli ambienti di lavoro. E secondo recenti ricerche, colpisce un americano su cinque (di questi, il 65% delle vittime è donna). Numeri che non si discostano di molto dalla situazione italiana, dove questo fenomeno viene definito “mobbing”. Il termine significa letteralmente “assalire tumultuosamente” e indica fenomeni di prevaricazione, vessazione, persecuzione nei confronti di un collega (“mobbing orizzontale”) o di un subalterno (“mobbing verticale”).
In Italia, dal 2020 è anche riconosciuto anche come agente di specifiche patologie professionali. Non c’è da stupirsi, dato che già nel 2008 l’Istituto per la prevenzione e la sicurezza del lavoro (Ispesl) aveva denunciato che circa 1,5 milioni di lavoratori italiani (su 21 milioni di occupati) erano vittime di mobbing. Il fenomeno risultava più presente al Nord (65%), colpiva maggiormente le donne (52%) come negli Stati Uniti, e per oltre il 70% dei casi accadeva nella Pubblica amministrazione. Le categorie più esposte risultavano gli impiegati; mentre rispetto al livello di istruzione i più ‘perseguitati’ erano i diplomati, seguiti dai laureati.
L’Ispesl ha anche calcolato che la produttività di un lavoratore cala del 70% per problemi di ansia e, tra le conseguenze, fa aumentare l’assenteismo. Inoltre, fin dall’inizio dei suoi studi Heinz Leymann, uno dei più autorevoli studiosi del fenomeno, affermò categoricamente che, in base ai risultati, non ci sono tipi di personalità inclini ad essere mobbizzati, che cioè il mobbing può accadere a chiunque.
La durata media delle molestie non è cambiata dal 2008: attualmente va da un anno a due, e il 30% supera i due anni. “Non è poco se pensiamo al fatto che avvengono giorno dopo giorno. Inoltre, prima di realizzare di essere una vittima di molestia una persona ci mette circa sei mesi”, spiega Cristina Vacchini, Supervisore e Responsabile Qualità del Centro di ascolto psicologico di Stimulus Consulting e Referente per la Commissione Pari Opportunità dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia.
La tecnologia può diventare un’arma a doppio taglio
Come se non bastasse, nell’ultimo anno a causa della pandemia sono cambiate le modalità del mobbing. Con il lavoro da remoto e l’utilizzo massiccio della tecnologia, per esempio, Vacchini racconta che le sono arrivate molte segnalazioni di lavoratrici che ricevevano loro foto scattate da un collega durante una riunione in video. Le immagini sono solitamente accompagnate da commenti piuttosto espliciti sull’aspetto estetico oppure critici sull’abbigliamento, o peggio ancora da frasi volgari e riferimenti sessuali.
“Le segnalazioni riguardano anche le chat del lavoro composte solo da uomini che si inviano foto delle colleghe, con meccanismi simili al revenge porn o al body shaming”, aggiunge l’esperta. A proposito di uso della tecnologia, alcune vittime hanno cambiato anche il modo di chiedere aiuto: le persone che subiscono abusi, soprattutto in casa, prima riuscivano a telefonare senza rischiare di farsi sentire da chi le molestava, perché in molti casi lavorava fuori casa. Ora, con il lavoro da remoto la situazione è cambiata, quindi piuttosto che telefonare preferiscono usare le chat del Programma di Assistenza al Dipendente di Stimulus, evitando il rischio di essere ‘scoperte’.
Per quanto riguarda i vertici aziendali (e in questo caso si parla di “bossing”, in quanto si tratta di mobbing compiuto dai quadri o dai dirigenti dell’azienda con lo scopo preciso di indurre il dipendente alle dimissioni), negli ultimi mesi è emerso il poco rispetto per gli orari dei lavoratori, che rispondono alle chiamate o alle email anche quando non sarebbero tenuti a farlo. “Vista la crisi, si ha il timore di perdere il posto se non si risponde in tempi brevi o di essere messi in una situazione difficile, quindi si è sempre operativi”, spiega Vacchini, che però punta l’attenzione sulla tutela della work-life balance. “Questo non significa lavorare di meno, ma fissare dei limiti”, è la sua tesi.
L’Ispesl ha suggerito che una delle chiavi di volta per arginare il mobbing potrebbe essere rappresentata dall’affermazione di una cultura organizzativa che comporti una maggiore consapevolezza della gravità del fenomeno e delle sue conseguenze individuali e sociali.
Un ruolo particolare all’interno di questo processo potrebbe svolgerlo anche la formazione, come elemento di prevenzione del fenomeno e strumento che favorisce la mediazione nei conflitti organizzativi anche la fine di promuovere il benessere organizzativo.
Elisa Marasca è giornalista professionista e consulente di comunicazione. Laureata in Lettere Moderne all’Università di Pisa, ha conseguito il diploma post lauream presso la Scuola di Giornalismo Massimo Baldini dell’Università Luiss e ha poi ottenuto la laurea magistrale in Storia dell’arte presso l’Università di Urbino.
Nel suo percorso di giornalista si è occupata prevalentemente di temi ambientali, sociali, artistici e di innovazione tecnologica.
Da sempre interessata al mondo della comunicazione digital, ha lavorato anche come addetta stampa e social media manager di organizzazioni pubbliche e private nazionali e internazionali, soprattutto in ambito culturale.