Dalla carta al digitale: la sfida è culturale
La pandemia ha stravolto per sempre il modo di lavorare di tutti. Al di là del dramma sanitario e della difficile gestione dell’emergenza, è innegabile che nel 2020 abbiamo scoperto come la tecnologia possa essere d’aiuto per (tutte) le attività di lavoro. E non solo. Tuttavia, ci siamo anche resi conto che alcuni processi e soluzioni prima ‘tollerati’, oggi non sono più adeguati. Un esempio su tutti è l’improvvisa esplosione dell’utilizzo della email: fondamentale per svariate attività, è di certo limitata e non idonea per altri task più complessi (la condivisione di documenti oppure la firma degli stessi).
In realtà, ben prima della pandemia si era iniziato ad assistere alla spinta verso la digitalizzazione; un ruolo importante è stato giocato dalle normative – introduzione di Gdpr, Pec, conservazione sostitutiva dei documenti e fatturazione elettronica – che hanno consentito una rilevante evoluzione delle organizzazioni. Lo Smart working ‘forzato’ del 2020, a cui si sono dovuto adattate parecchie aziende (in particolare quelle popolate dai Knowledge worker), non ha fatto altro che accelerare il passaggio ai processi digitali. Si potrebbe perfino affermare che il Covid-19 ha scardinato le ultime resistenze verso la digitalizzazione delle aziende (e delle persone): per esempio, i sistemi di videoconference sono diventati strumenti accessibili a chiunque, sebbene non si debba nascondere che avendo preso il posto delle relazioni fisiche stanno iniziando a creare qualche malumore. Ma in generale è aumentato l’interesse delle imprese verso le soluzioni di dematerializzazione digitale.
Ci stiamo addentrando sempre più in un’epoca dove la stampa, per esempio di contratti e documenti, rappresenta solo un (inutile) consumo di carta. Nicola Voltan, CEO di Siav, azienda fornitrice di soluzioni software per la gestione dei documenti elettronici e dei processi digitali, ideali soprattutto ora che tanti hanno introdotto lo Smart working, spiega: “Ci sono strumenti, come la firma digitale, che offrono la possibilità di approvare e validare documenti anche a distanza”. Un esempio riguarda proprio la dematerializzazione dei documenti HR; chi si è adeguato al nuovo contesto ha potuto gestire con semplicità i processi che prima costringevano all’utilizzo di strumenti tradizionali. Sono numerose le aziende che, di recente, hanno addirittura assunto personale nei mesi del primo lockdown. “Le aziende che prediligono ancora il cartaceo vogliono semplicemente procrastinare scelte che diverranno obbligate nel futuro prossimo”, prosegue Voltan.
La sfida è l’integrazione di soluzioni dipartimentali
Ovviamente digitalizzare non vuol dire smaterializzare improvvisamente tutte le organizzazioni; è più un adattamento al contesto. Un passaggio affrontato anche da Siav che, come spiega lo stesso CEO, ha potuto ‘sfruttare’ l’impostazione del lavoro digitale (“Nella nostra azienda non entrano documenti di carta, ma solo digitali”) e di numerosi flussi documentali già digitalizzati per gestire la fase acuta della pandemia. Anche se oggi, a distanza di quasi un anno dall’inizio dell’emergenza sanitaria, “c’è la volontà di tornare a lavorare in ufficio”, pur riconoscendo che qualche lavoro – per esempio quello dei knowledge worker – subirà spinte ancor più forti verso la digitalizzazione. E questo genererà, almeno per l’organizzazione, nuove sfide, perché “si dovrà gestire un’azienda non strutturata e digitale”, senza quel contatto fisico che Voltan considera come “impagabile”.
Nonostante queste premesse, ci sono ancora ostacoli sulla strada della digitalizzazione; per esempio resiste la tendenza delle organizzazioni a ragionare per compartimenti stagni, con la conseguenza che non è inusuale l’introduzione in azienda di soluzioni dipartimentali. Come spiega il CEO di Siav ci sono aziende che “hanno soluzioni integrate, ma non le sfruttano nel loro complesso, limitandosi a utilizzarne appena una piccola parte”; la logica dipartimentale è, dunque, una questione di cultura aziendale e organizzativa, non certo di mancanza di strumenti. Per Voltan, infatti, sarebbe il caso di considerare l’azienda come un corpo umano: “Spesso si è portati a pensare che nelle imprese ci siano processi che sono più importanti di altri, ma è tutto legato”.
In questo senso la stessa Siav è un esempio di come l’integrazione possa generare benefici. “Ogni settimana condividiamo con ogni reparto ciò che è stato realizzato e in queste occasioni si generano progetti trasversali”, dice Voltan. Che non nasconde come, in altre occasioni, vari progetti siano sì iniziati da specifici dipartimenti, ma poi sono stati sviluppati anche delle altre funzioni. E questo atteggiamento di condivisione è continuato anche con l’introduzione dello Smart working.
Dal suo osservatorio, Siav può però restituire anche una fotografia del livello di maturità digitale delle nostre aziende. “Per riuscire a evolvere verso una logica integrata, le organizzazioni devono avere la volontà di coinvolgere tutti i settori nei vari processi aziendali”, continua Voltan. Secondo cui la Pubblica amministrazione – contrariamente a quanto spesso si pensi – è in generale molto avanti, anche se in alcuni ambiti, come la Sanità, paga ancora le logiche dipartimentali, così come altri settori privati quali il Finance. “Dipende comunque dalla ‘volontà organizzativa’ del cliente”, commenta. “Alcuni hanno soluzioni molto integrate, altri no. È una questione di cultura”.
La (lunga) strada per la trasformazione 4.0
A proposito di logiche dipartimentali, per lungo tempo – e forse ancora oggi – la stessa Industria 4.0 è stata vista solo come l’innovazione tecnologica degli strumenti di produzione. Una visione, questa, che non condivide Voltan: “L’Industria 4.0 dovrebbe stimolare una visione più completa e integrata di tutto il processo, per esempio della Supply chain, dalla gestione dell’ordine all’incasso finale”. E oggi il 4.0 si può declinare come il servizio che si lega al prodotto. “L’ecommerce, con la sua semplicità di vendita e di consegna è già un processo 4.0”.
Questi temi richiamano a un nuovo ruolo l’IT, in passato spesso coinvolto ‘solo’ per aspetti tecnici e non strategici. Vuol dire dunque un’evoluzione della funzione, non sempre facile da attuare. “A volte mancano le competenze, ma pure il giusto coinvolgimento: spesso l’IT è chiamato a risolvere una specifica esigenza, proprio perché, come si diceva, domina la logica dipartimentale e non quella dei processi integrati”. L’esperto informatico dovrebbe allora “evolversi verso un ruolo consulenziale per poter fornire gli strumenti migliori volti a facilitare molti processi e consigliare come integrarli”.
Al momento la situazione che ci circonda vede, secondo Voltan, alcune aziende molto evolute, cui però fanno da contraltare altre imprese che sono ben distanti dai competitor sul fronte digitale. “La strada della digitalizzazione è ancora lunga”, dice il CEO di Siav, ribadendo come siano ormai diffuse le tecnologie nelle organizzazioni (dalla posta elettronica all’ERP e agli altri gestionali), ma sempre secondo logiche di funzioni. “Nonostante lo scenario siamo fiduciosi”, continua l’imprenditore. Anche perché ci sono nuovi sviluppi, in particolare sul cloud che per la sua semplicità e comodità rappresenta, con il mobile, un’importante leva tecnologica su cui basare la ripartenza. Ma non si tratta di tecnologie nuove: andrebbero semplicemente traslate in ambito lavorativo le soluzioni che gran parte di noi utilizza già quotidianamente per gestire la propria vita privata. La tecnologia, dunque, è già pronta; ora servirebbe ‘solo’ un’evoluzione della cultura organizzativa.
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