Genitorialità, competenza che piace più ai social che in azienda
Se la mamma fosse un lavoro lo stipendio ammonterebbe a 6.480 euro: questa è la stima fatta da ProntoPro, portale per la domanda e l’offerta di servizi professionali. Ma fare la mamma non è un lavoro, anche se finalmente la genitorialità si sta scrollando di dosso il velo di tabù che, negli ambienti lavorativi, la ricopriva fino a poco tempo fa. La pandemia ha accelerato cambiamenti già in atto e tra questi la nuova considerazione del ruolo dei genitori nelle aziende. Tanto che recentemente sono diversi gli esempi inclusivi su questa tematica.
Lo testimonia Andriani, azienda pugliese di innovazione per il settore food che ha offerto ai suoi dipendenti esperienze di formazione prettamente dedicate alla genitorialità, per trasformarla in occasione di sviluppo di nuove competenze; o come LinkedIn, che ha deciso di inserire tra i job title la dicitura “Genitore a tempo pieno”.
“La notizia è interessante”, commenta Francesca Pasqui, Founder di Care Up, azienda di consulenza specializzata nel welfare aziendale e nelle scuole. “È uno specchio dei tempi che stiamo vivendo e la riflessione che ne scaturisce non è tanto il fatto che le persone sentano la necessità di sottolineare l’essere genitori (una necessità che è emersa ora, ma che è storica), quanto il focus sulle competenze che ci stanno dietro”. Secondo Pasqui, la notizia non deve essere tanto il poter mettere o non inserire i termini “mamma” o “papà” nel curriculum, dal momento che farlo sapere al datore di lavoro è utile al dipendente che sta a casa. La vera svolta è un’altra: “È il salto culturale che deve essere finalmente messo in conto da parte delle aziende”. Le organizzazioni devono quindi iniziare a capire quanto essere mamme o papà possa essere benefico per la produttività.
Sviluppare e allenare le competenze trasversali
La produttività aziendale, oggigiorno, è ostacolata da un fatto imprescindibile: il gap tra domanda e offerta e la carenza di competenze soft, come sottolinea Pasqui; carenza che si nota da qualche anno, ma che il 2020 ha reso emergenza. “La pandemia da Covid ha enfatizzato l’importanza delle competenze trasversali, che superano oggi le abilità pratiche. Se ci pensiamo, quelle richieste in questo periodo sono affini a quelle che si acquisiscono con la genitorialità: l’utilizzo della gentilezza e dell’empatia, la gestione del conflitto, la gestione del tempo, il rispetto…”.
L’emergenza sanitaria che stiamo vivendo, poi, ha svelato come le soft skill siano necessarie: “Abbiamo capito quanto sia importante saper cambiare in fretta, e pensiamo a quanto cambiano ogni giorno i bambini e la quotidianità in famiglia”. Sono in molti, quindi, ad aver intuito come le competenze trasversali – allenabili come genitori – siano una leva utile proprio all’azienda e il nuovo job title inserito da LinkedIn lo conferma.
Ma come si è arrivati a capire finalmente che la genitorialità non sia da nascondere, ma da valorizzare? “Il Covid e le nuove modalità di lavoro hanno ridato dignità a una sfera privata che prima era quasi nascosta. Con le videocall e il Remote working l’azienda è entrata nelle case delle persone e la conciliazione lavoro-famiglia e la gestione del tempo sono diventate capacità da imparare necessariamente più di prima. Soprattutto nelle famiglie con figli”.
Evidenziare le capacità di tutti i caregiver
La discriminante, però, non sono solo i figli. Ci sono altri modi per sviluppare le preziose competenze fuori dall’ufficio. Pasqui invita a pensare ai caregiver che si prendono cura di genitori anziani o disabili, che sono da considerare competenti su empatia, cambiamento, comprensione e gestione del tempo. “Mettere semplicemente ‘Mamma o papà a tempo pieno’ è limitativo. Perché è parziale e tocca le competenze solo di chi ha figli. Supererei quindi la dicitura di per sé, cercando di dare valenza, nel cv, alle competenze e alle circostanze che hanno permesso di svilupparle”.
Superare l’approccio standard al curriculum attribuendo valore alle capacità personali potrebbe essere un passo verso l’inclusione e la sostenibilità sociale? “Non è il mio ultimo rapporto di lavoro a dire chi sono e quanto valgo, ma le competenze che ho acquisito nella vita. La cronologia professionale? Diventa una referenza, seconda alle competenze reali”.
Un curriculum così strutturato non va a beneficio del solo dipendente (o aspirante tale), come fa notare Pasqui. “Le aziende non sono più valutate solo dal punto di vista economico, ma la loro solidità è legata al benessere delle persone che vi lavorano. Puntare sugli aspetti sociali significa valorizzare la parità di genere, la non discriminazione, il rispetto… E valorizzare le famiglie e i diversi talenti porta vantaggi sociali e di produttività”.
Accompagnare la crescita dei nuovi manager
Bene, quindi, la novità introdotta da LinkedIn, ma in generale sono le aziende a dover cambiare la propria cultura manageriale e di gestione delle persone. “Le imprese dovrebbero lavorare sulla formazione manageriale per cambiare il concetto stesso di manager. Se prima era basato sul controllo, ora deve basarsi sulla crescita, proprio come avviene in una famiglia. I figli non si controllano, ma si accompagnano nella crescita”.
A proposito di crescita, è innegabile che le aziende con una crescita più solida siano quelle in cui si punta al benessere delle persone, come fa notare Pasqui. “Quando internamente le aziende sono più serene, sono anche più produttive e vi si respira un clima collaborativo. Quando la diversità è un valore tutto va meglio. Le aziende devono quindi portare nell’organizzazione una serie di abilità e competenze diverse da prima (flessibilità, mentalità aperta…) creando una rete interna tra dipendenti ed esperti esterni”.
Per tante imprese si tratta di aspetti innovativi, perché, come conferma l’esperta, prima il benessere psicologico era lasciato in sordina. “Oggi i bisogni mentali e fisici stanno emergendo. E l’emergenza Covid ha accelerato tante cose rimaste sopite per troppo tempo, come la digitalizzazione e l’attenzione alla genitorialità come valore aggiunto e non come ostacolo”.
Sara Polotti è giornalista pubblicista dal 2016, ma scrive dal 2010, quando durante gli anni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore (facoltà di Lettere e Filosofia) recensiva mostre ed eventi artistici per piccole testate online. Negli anni si è dedicata alla critica teatrale e fotografica, arrivando poi a occuparsi di contenuti differenti per riviste online e cartacee. Legge moltissimo, ama le serie tivù ed è fervente sostenitrice dei diritti civili, dell’uguaglianza e della rappresentazione inclusiva, oltre che dell’ecosostenibilità.
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