Il lato oscuro del congedo di paternità
Il Presidente degli Usa Joe Biden ha proposto un congedo obbligatorio a livello nazionale di 12 settimane per ragioni parentali, familiari e di salute. La misura, inserita nell’American Families Plan allo studio dell’amministrazione americana, punta, tra le altre cose, a ottenere una più ampia diffusione del congedo di paternità, ancora poco usato Oltreoceano.
Sebbene comune a molti Stati, non è infatti garantito ovunque negli Usa. E anche dove la norma esiste, molti uomini si mostrano ancora riluttanti a farne richiesta, temendo un impatto negativo sulla carriera. Un nuovo studio condotto in Norvegia suggerisce, però, che proprio le aziende potrebbero giocare un ruolo determinante nell’alleviare tale preoccupazione. Come? Incoraggiando in maniera più decisa il ricorso al congedo da parte di tutti i nuovi papà.
La Norvegia è uno dei Paesi con più dati sul tema, dal momento che la politica in materia di congedo parentale a favore dei padri risale agli Anni 90. A partire dal 1 aprile 1993, i papà norvegesi hanno diritto a quattro settimane di congedo pagato, che si intende perso in caso di mancato utilizzo. Da allora, il tasso di genitori che hanno usufruito del congedo è balzato al 50% dall’originario 5%.
Gli effetti negativi sullo stipendio futuro
Uno studio condotto nel 2013 da due economisti riscontrò, però, un evidente svantaggio di quanti accedevano al congedo: gli stipendi degli uomini norvegesi che avevano trascorso quattro settimane a casa, in occasione della nascita del proprio figlio, crescevano più lentamente rispetto a quelli dei colleghi che avevano continuato a lavorare. I ricercatori stimarono che cinque anni dopo la nascita, gli uomini guadagnavano circa il 2% in meno di quanto avrebbero incassato in assenza del congedo. Questa perdita di reddito sarebbe la ragione dietro la scelta di quanti ancora oggi – circa la metà dei norvegesi – rinuncia alla possibilità di assentarsi dal lavoro.
Un nuovo studio, di recente, ha tuttavia riconsiderato il caso norvegese, individuando la ragione di una tale disparità di stipendio. Due erano finora le ipotesi avanzate: le competenze del lavoratore si sarebbero ‘arrugginite’ durante il periodo di congedo, rendendolo meno produttivo una volta rientrato sul posto di lavoro, oppure sarebbe stato il periodo trascorso con i figli a rendere i padri meno concentrati sul lavoro e meno disposti a impegnarsi sulle attività.
Il nuovo paper rivela un altro aspetto: il breve periodo di tempo di assenza dall’ufficio offre ai colleghi un piccolo vantaggio, in termini di promozioni e altri benefici sul posto di lavoro. Lo studio ha infatti riesaminato la politica norvegese del 1993, analizzando i casi in cui i ‘competitor’ nell’organizzazione – i colleghi maschi vicini per età e con pari livello di istruzione – si trovavano casualmente in congedo tutti nello stesso periodo. Ebbene, in questo caso l’effetto del congedo sulla carriera appare del tutto trascurabile, dimostrando come la sua diffusione aiuti a mantenere gli stessi livelli retributivi e la stessa progressione di carriera per tutti.
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Giornalista professionista dal 2018, da 10 anni collabora con testate locali e nazionali, tra carta stampata, online e tivù. Ha scritto per il Giornale di Sicilia e la tivù locale Tgs, per Mediaset, CorCom – Corriere delle Comunicazioni e La Repubblica. Da marzo 2019 collabora con la casa editrice ESTE.
Negli anni si è occupata di cronaca, cultura, economia, digitale e innovazione. Nata a Palermo, è laureata in Giurisprudenza. Ha frequentato il Master in Giornalismo politico-economico e informazione multimediale alla Business School de Il Sole 24 Ore e la Scuola superiore di Giornalismo “Massimo Baldini” all’Università Luiss Guido Carli.
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