Afghanistan, gestire le nuove crisi globali, sistemiche e multifattoriali

Ciò che stiamo leggendo nella crisi afghana, rivela – se ancora necessario – che viviamo in un mondo crescentemente interdipendente e fortemente interconnesso. Le ultime crisi hanno tratti comuni: dalla ‘bolla’ di internet (2001), a quella finanziaria dei subprime del 2008 in Usa (che ha poi contagiato l’intero Pianeta), a quella sanitaria del Covid-19 che stiamo attraversando con difficoltà e fatica e ora quella geopolitica, umanitaria e migratoria dell’Afghanistan, ‘incubata’ per 20 anni. Tutte queste ultimi crisi si ‘somigliano’ in particolare per gli impatti globali che ci segnalano, pur avendo una natura settoriale diversissima e un’origine geografica altrettanto diversificata.

Infatti, le crisi petrolifere degli Anni 70 avevano solo alcune di queste caratteristiche e in particolare di tipo economico e concorrenziale. In quei casi si trattava di crisi del prezzo dell’energia scatenate anche dalla dichiarazione di inconvertibilità del dollaro di Richard Nixon del 1971 per fronteggiare l’indebitamento dovuto alla guerra del Vietnam e per sancire la fine del Gold Standard eretto nel 1944 a Bretton Woods quale leva alla ricostruzione di ‘vinti e vincitori’ e alle nuove alleanze post conflitto, con la quale si avviava, con un New Protectionism, la lunga erosione del multilateralismo economico che resse tuttavia fino al 1989 con la caduta del Muro di Berlino e con l’implosione dell’Unione sovietica e della rete connessa (tutti questi processi sono ben descritti nel libro di Jeffrey E.Garten dal titolo Three days at Camp David: how a secret meeting in 1971 transformed the global economy).

L’erosione del multilateralismo economico, inoltre, non solo ha delimitato i potenziali di crescita innovativa dell’economia mondiale, ma ha iniettato fattori di insicurezza geopolitica e di risk aversion che solo un’Europa più forte e coesa (oltre che integrata con un bilancio e una difesa comuni più larghi) può contrastare. In particolare serve una risposta rispetto a questo frangente storico dove il Covid-19 rappresenta lo spartiacque di nuovi equilibri mondiali, dato che si tratta del primo grande choc dell’ordine internazionale che mostra la sottrazione (voluta o subita?) della leadership americana (Colin Kahl e Thomas Wright After shocks: pandemic politics and the end of the old International order).

Con gli Anni 90 del secolo scorso si sono cominciate ad avere conferme della complessità sistemica che si andava saldando da almeno un decennio per la quale, come si dice, “un battito d’ali ad Helsinki poteva produrre un tornado a Baltimora”. Sono da leggersi in questa luce le crisi sub-sistemiche generate dall’azione umana, che al culmine dell’Antropocene sono ormai ‘imbevute’ della super-crisi globale come quella ambientale che ha una natura sistemica conclamata e che accende in modo congiunto squilibri che sono economico-finanziari, umanitari-migratori e sanitari, in un tremendo intreccio cumulativo spazio-temporale di una catena di crisi distanziate solo da una manciata di anni.

Verso il superamento dei modelli lineari

Le crisi oggi non sono più tipicamente localizzate e settoriali (specializzate o monodimensionali), ma sono pluridimensionali e multifattoriali, fortemente globalizzate e intrecciate nei loro effetti sistemici: economico-finanziari, sanitari, migratori e ambientali. Gli effetti poi sono ‘rinforzati’ da impatti collaterali a catena (o a cascata) in termini di ‘guerre territoriali’ solo apparentemente di tipo ‘localizzato’ e incistate da crisi di valori (religiosi e non), di coesione e di fiducia, che svelano i legami sempre più inestricabili tra fattori macro e fattori micro, tra le cosiddette variabili esogene (o globali) a quelle endogene o locali, tra comportamenti e aspettative.

È un intreccio interdipendente globalizzato di crisi, tale perché il mondo è diventato sempre più piccolo e altamente interconnesso, anche nell’iniquità oltre che nelle pandemie o nell’inquinamento, e richiede allora soluzioni che siano altrettanto sistemiche per poter ripristinare condizioni minime di pace e di prosperità condivise. Queste condizioni sembravano assicurate fino alla fine degli Anni 80 nella tripla illusione di un capitalismo vincente, di una globalizzazione progressiva e di guerre giuste per una democrazia esportabile. Da qui dobbiamo ripartire per esplorare soluzioni sostenibili e condivise di medio e lungo termine per una pace e una stabilità durature tra dialogo, comprensione e condivisione entro scambi cooperativi e solidali tra pari nella responsabilità di un perimetro planetario di nuove alleanze, non più e non soltanto economiche, ma anche ambientali, sanitarie e umanitarie oltre che educative.

È quest’ultima una traiettoria alla quale le stesse imprese devono rifarsi per fronteggiare la nuova tipologia di choc con alleanze globali e locali insieme (si definiscono appunto “glocal”) con approcci di responsabilità sociale con una robusta stakeholdership, dove anche pubblico e privato devono trovare modalità di collaborazione più sistematiche e integrate vista la crisi del welfare State che ci ha consegnato il Novecento. Traiettorie e orientamenti devono essere al servizio di nuove qualità eco-sistemiche di comunità e territori coesi quali fonti di creatività e intelligenza collaborativa condivise, con azioni e politiche di welfare proximity, con organizzazioni agili e partecipate anche per uscire dai tanti focolai di crisi d’impresa (come ‘effetti collaterali’ globali e sistemici) innescati dal Covid-19 e non solo.

Come? Costruendo persone, comunità, territori, ma anche aziende, istituzioni e Paesi resilienti e uniti dalla varietà verso una forte sostenibilità condivisa per accogliere le sfide della società della conoscenza e dell’economia circolare che sono umane e naturali prima di essere tecnologiche. Esplorando i potenziali di logiche post razionaliste, ripartendo dai rapporti tra enti umani e non-umani, tra etica e scienza, tra tecnologia e natura, tra astratto e concreto, tra individuale e collettivo alla ricerca di nuovi accoppiamenti tra informazione e comunicazione, tra decisione e azione entro i confini porosi di organizzazioni piatte, partecipate, coinvolgenti e motivanti. Questo vale pure per produzioni e consumi responsabili, perché non tutto può dipendere sempre dal minore prezzo se accompagnato dagli sprechi enormi di modelli lineari ormai incompatibili con la sopravvivenza del Pianeta.

Creare nuove istituzioni politiche globali

Certo l’affaire afghano come ennesima ‘questione globale’ può avviare equilibri, ri-partendo dalle soluzioni urgenti di accoglienza imposte dall’evacuazione caotica di Kabul che non era prevista nei termini rapidissimi e con i quali si è ‘accesa’ davanti al mondo. Purtroppo questa situazione si è generata anche per l’inesistenza di piani appropriati capaci di prevenire molti degli impatti ora sotto i nostri occhi, dato che in geopolitica o nelle lotte per il potere lo stato di vuoto neutrale non esiste – come in natura peraltro – e che gli ‘incendi terroristici’ di fine agosto 2021 stanno già dimostrando ad abundantiam e tragicamente.

Dovremo adottare politiche sistemiche-globali come concetti non-vuoti che richiedono innanzitutto una leadership condivisa e uno sguardo solidale di lungo periodo, come ben espresso dal Governo nei colloqui internazionali delle recenti vicende in Afghanistan, a richiamare la funzione sistemica di G7 e G20. Inoltre, serve rinnovare le istituzioni politiche globali varate nel Secondo Dopoguerra – le Nazioni unite, la Banca Mondiale o il Fondo monetario internazionale o la Nato stessa e azioni come il Piano Marshall – e creare istituzioni globali più adatte a un mondo altamente interdipendente, che non è più la semplice somma di nazioni chiuse (ed egoiste) entro i loro confini, illusoriamente auto-sufficienti e che, ‘isolate’ nel loro particulare (con i noti slogan di America, Cina, Russia o Turchia “first” ), si rivelano inefficaci o inutili per una pace stabile e prospera e che è condivisa o non è.

Dunque questi nuovi soggetti devono essere capaci di canalizzare o stabilizzare gli intrecci sistemici dalla finanza all’economia, dalla sanità alle migrazioni fino all’ambiente e al climate change. D’altra parte viviamo in un eco-sistema interconnesso tra micro e macro del quale dobbiamo essere consapevoli se vorremo riavviare la strada di una prosperità che non potrà che essere condivisa e solidale che rimetta al centro un’Europa come culla di una Civitas Nova e dei diritti, nella convivenza, nel dialogo, nella solidarietà.

Bisogna ripartire da un’accoglienza come destino di un Occidente non egemonico che voglia tornare a essere vitale, oltre che essere un prius per alimentare creatività, varietà e cambiamento di culture e valori per la fioritura umana, evitando derive assimilazioniste come già scritto nei testi biblici fondamentali e prima ancora nel coro dei Supplici di Eschilo della Grecia antica con il “Sii giusto e pietoso protettore degli ospiti” (messaggio che Papa Francesco richiama in continuazione seppure spesso inascoltato). Serve riaffermare i principi rivoluzionari francesi di libertà, fraternità ed uguaglianza del 1789 poi recepiti nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e nelle costituzioni democratiche successive, come anche nella nostra con l’articolo 10 come “diritto delle genti” (“Lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica”) in primo luogo di donne e bambini.

Possiamo e dobbiamo farlo: l’Italia sta già dimostrando di essere pronta con i suoi eserciti civici e vitali di volontari e di Onlus, ma servono istituzioni e politiche appropriate (oltre che leader politici adatti) così come imprese, imprenditori e manager con culture d’impresa adatte ad affrontare la sfida.

accoglienza, crisi, Afghanistan


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Luciano Pilotti

Professore Ordinario presso il Dipartimento di Scienze e Politiche Ambientali, Università degli Studi di Milano

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