Camera

Parità di genere non solo a parole

A un anno e mezzo dall’inizio della pandemia, le conseguenze economiche e sociali hanno riportato a galla la questione delle disparità di genere. A evidenziarlo è stato l’ultimo Global gender gap report 2021 del World Economic Forum, dal quale emerge il divario in termini di possibilità di carriera e di retribuzione che ancora oggi separa le donne dagli uomini nel lavoro: se si dovesse continuare con questo andamento, per annullare il gap, sono necessari 267,6 anni. Ecco perché Winning women institute, una realtà impegnata nella promozione dell’uguaglianza di genere come priorità sia etica sia economica, ha ideato, in Italia, il Bollino rosa, una certificazione per la parità di genere sul lavoro.

Proprio in questi giorni, a tal proposito, è stata approvata all’unanimità dalla Camera dei Deputati (393 voti favorevoli, nessun contrario) la legge sulla parità salariale, che modifica l’articolo 46 del Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, incentivando la presenza femminile nel mercato del lavoro e la riduzione del gender pay gap. Tra le innovazioni, c’è anche l’istituzione, appunto, della certificazione, per attestare le misure dei datori di lavoro in merito alla riduzione del divario di genere relativo alle opportunità di crescita in azienda, parità salariale, politiche di gestione delle differenze tra i due sessi e tutela della maternità. In questo contesto, è previsto un premio per le aziende che hanno un approccio propositivo all’uguaglianza.

La situazione attuale in merito alla parità di genere, infatti, non è delle migliori. Il Censis ha rilevato che fino all’inizio del 2020 le donne rappresentavano circa il 42% degli occupati complessivi del Paese; e il tasso di attività femminile era il 56%, contro il 75% degli uomini. Ma invece che migliorare, la pandemia ha intensificato le disuguaglianze. Secondo i più recenti dati Istat, a dicembre 2020 ci sono stati 101mila nuovi disoccupati, di cui 99mila erano donne (vale a dire, il 98%). Facendo riferimento, invece, all’intero anno, dei 444mila occupati in meno registrati in Italia, il 70% è costituito da donne.

Con riferimento alle posizioni manageriali, invece, i recenti dati del report Women in business 2021 di Grant Thornton – ricerca effettuata a livello globale su circa 5mila imprese in 29 nazioni tra cui l’Italia – confermano che la posizione delle donne al vertice nel nostro Paese, pur avendo registrato nei primi mesi del 2021 il miglioramento di un punto percentuale rispetto al 2020 (dal 28% al 29%), risulta inferiore rispetto alla media mondiale (31%) e alle singole nazioni europee come Francia (33%) e Germania (38%).

La certificazione per attestare l’equità

È proprio per fronteggiare tutte queste disparità che è nata Winning women institute che riunisce sotto di sé un gruppo di lavoro di professionisti. “Il processo di certificazione è stato ideato da un comitato scientifico composto da CEO, Direttori delle Risorse Umane e professori universitari”, commenta Enrico Gambardella, Presidente di Winning women institute. “Ci siamo confrontati sul tema cercando di capire come potessimo contribuire alla gender equality dell’Italia, a oggi ancora piuttosto indietro. Così abbiamo progettato e disegnato il processo e la metodologia del percorso per arrivare ad avere il Bollino rosa”.

Il percorso di certificazione è composto, infatti, da quattro fasi: pre-audit (serve per verificare che ci siano le precondizioni per potersi certificare ed è dirimente rispetto al prosieguo del processo), audit, certificazione e comunicazione. Infatti, per arrivare alla certificazione sono analizzate quattro aree: l’opportunità di crescita per le donne; l’equità remunerativa e i processi gestionali delle Risorse Umane; le policy per la gestione della gender diversity; le policy per la tutela della maternità. “Chiediamo all’azienda di mettere a disposizione le misure e i dati rispetto i quattro quadranti su cui ci focalizziamo; si tratta di un modello denominato Dynamic model gender rating che fornisce, alla fine, un punteggio: se supera una certa soglia, allora l’azienda può certificarsi”, spiega Gambardella.

Seguire il percorso di certificazione è anche una procedura che permette al management di avere una panoramica rispetto le politiche interne HR adottate: un utile esercizio per rendersi realmente conto di ciò che si fa (o non si fa) per le persone. “Gli obiettivi per le aziende sono di misurarsi, di capire se esiste una buona equità di genere – di cui spesso non sono consapevoli – quali sono le aree di forza e di debolezza; inoltre, fa una fotografia della situazione”. Dopo la certificazione, il percorso non si conclude subito; successivamente c’è un periodo di tempo di monitoraggio costante per valutare l’atteggiamento dell’organizzazione. Insomma, come dire che il Bollino rosa certifica la presenza di politiche e strategie di tutela della diversity, ma poi serve che queste siano applicate nel tempo.

Gestire la diversity oltre la moda

Nonostante di certe tematiche se ne parli da tempo, non è scontato che tutte le aziende siano totalmente consapevoli di cosa significhi applicare misure per l’equità di genere. E i numeri che certificano le attuali discriminazioni sono lì a confermarlo. Altro fenomeno che vale la pena ricordare è quello denominato gender washing: una pratica secondo cui le aziende parlano di gender equality, realizzano campagne pubblicitarie o cercano di promuovere una visione ‘etica’ del fare impresa, ma poi al loro interno, di fatto, non risolvono le disparità di genere.

“Ci sono casi in cui non le stesse aziende non sono consapevoli delle motivazioni sottostanti le differenze retributive tra uomo e donna; in un’impresa, per esempio, c’era il 30% del gender pay gap e nessuno se ne era accorto, perché i processi erano automatizzati. Queste differenze, per noi, non sono giustificate perché a parità di performance la retribuzione dovrebbe essere la stessa”, spiega Gambardella.

Ecco che, quindi, c’è una linea sottile (ma evidente) tra chi si limita a seguire le tendenze del momento e chi, al contrario, implementa soluzioni che modificano effettivamente l’assetto delle organizzazioni, arrivando a offrire maggiore parità. “Specialmente nell’ultimo anno, molte aziende hanno capito che non si tratta solo di una questione di moda o di marketing e non basta fare solo qualche iniziativa; bisogna metterci impegno e determinazione”, continua Gambardella. È dunque un cambiamento culturale e mentale e la certificazione è lo strumento per confermare che sia avvenuto realmente e non solo a parole. Ma proprio perché tra la discussione sul tema e le reali azioni concrete c’è ancora un’ampia distanza, il risultato del processo di certificazione non è scontato: “Oggi su 10 aziende che incontriamo e intraprendono il percorso di certificazione, solo due o tre riescono a certificarsi, ma per le altre è importante aver cominciato un percorso di sensibilizzazione e verifica. Si tratta di un cambiamento importante, che va oltre le campagne pubblicitarie; bisogna essere molto seri e misurarsi, tramite dati e statistiche”, è il commento del Presidente di Winning Women Institute.

Certificarsi porta vantaggi competitivi

L’altro tema grande legato all’attenzione (vera) per la diversity ha un riscontro concreto nel business. È certificato che impostare politiche organizzative in questa direzione offre un vantaggio competitivo. Un’indagine condotta dal Peterson Institute for International Economics su circa 22mila società quotate in borsa in 91 Paesi ha rivelato che la presenza di un maggior numero di leader femminili nelle posizioni di vertice della gestione aziendale è correlata a un aumento della redditività. “La certificazione dà alle aziende un’ulteriore possibilità di crescita: si presentano sul mercato con una reputation più alta; oggi, non lavorare sulla gender equality significa anche avere più difficoltà dal punto di vista economico”.

Resta però sempre il dubbio riguardo alla strategia dietro a queste attività: sono fatte per ricevere credibilità o per far conoscere la propria etica? Per il Presidente dell’associazione che promuove l’uguaglianza di genere, le aziende più che marketing, fanno una comunicazione sociale e, così, contribuiscono anche a diffondere la cultura. Ecco perché lo stesso Gambardella è in prima fila per far diventare obbligatoria la certificazione e farla approvare dal Ministero della Pari Opportunità.

Anche perché per l’Italia si tratterebbe di allinearsi con altri Paesi europei; infatti, secondo il Global gender gap report del 2021, su 156 Paesi analizzati, l’Islanda, si conferma per la dodicesima volta il Paese con il punteggio più alto rispetto alla parità di genere, mentre l’Italia si posiziona al 63esimo posto, salendo di 13 posizioni rispetto al 2020 e mostrando un leggero miglioramento. Pochi però sanno che un tempo la stessa Islanda era ben lontana dalla vetta della graduatoria e quasi era messa nelle nostre attuali condizioni. Infatti, secondo il World Economic Forum nel 1975 la differenza salariale tra uomini e donne era del 60% e fino al 1983 la presenza delle donne in Parlamento oscillava tra il 2% e il 5% (mentre oggi quasi la metà è composto da donne).

Dopo una serie di misure introdotte, tra cui per esempio la legge che impone il 40% di quote rose nei Consigli di Amministrazione, nel 2017 l’Islanda è apparsa al quinto posto nella classifica sul gender gap; nello stesso anno, è entrata in vigore una legge che imponeva l’equa retribuzione a parità di mansione in ogni azienda dai 25 dipendenti in su. I datori di lavoro, dunque, sono sottoposti a controlli e devono fornire la documentazione sufficiente per ottenere la certificazione ufficiale di azienda che rispetta la parità retributiva tra gender. È stato un percorso che ha portato a cambiamenti profondi. “L’Islanda ha raggiunto il primato nella classifica anche grazie alla certificazione”, conferma Gambardella.

Al di là di voler raggiungere i livelli islandesi sull’equità di genere, per il momento basterebbe affrontare la questione per avvicinarsi con maggiore attenzione al tema; la certificazione può aiutare nell’obiettivo, laddove non c’è altra via per farlo diversamente.

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Federica Biffi

Laureata magistrale in Comunicazione, Informazione, editoria, classe di laurea in Informazione e sistemi editoriali, Federica Biffi ha seguito corsi di storytelling, scrittura, narrazione. È appassionata di cinema e si interessa a tematiche riguardanti la sostenibilità, l'uguaglianza, l'inclusion e la diversity, anche in ambito digital e social, contribuendo a contenuti in siti web. Ha lavorato nell'ambito della comunicazione e collabora con la casa editrice ESTE come editor e redattrice.

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