Il luogo del dubbio
Da ragazzo mi rimpinzavo di romanzi di fantascienza. Accanto ad Aristofane e a Euripide, sul comodino tenevo Jules Verne, Isaac Asimov, Ray Bradbury, William Gibson, Arthur Clarke, Philip Dick, fino agli anni dell’università in cui scoprii Dan Simmons e Stanisław Lem. Non servivano i voti del professore di Greco per capire quale fosse la letteratura che mi appassionava di più. Sono stato sempre affascinato dal rapporto tra le macchine e l’uomo. Mi lasciavo rapire dalle fantasticherie dei robot di Asimov, che tutelava l’essere umano con le sue tre leggi. Vagavo nei mondi post apocalittici, un po’ meno rassicuranti, abitati dai replicanti di Dick.
Oggi continuo a chiedermi: dobbiamo guardarci dalle macchine? Ci porteranno via il lavoro? Quale spazio ci rimane in questo periodo di rivoluzione digitale? Quando mi pongo queste domande non penso però ai classici della fantascienza. Mi viene subito in mente, invece, una scena di The Big Kahuna, un film che ho già citato in questa rubrica. La storia parla di tre venditori di lubrificanti industriali – due anziani e smaliziati, uno più giovane e inesperto – che attendono un importante cliente, conversando in un’anonima stanza d’albergo del Kansas. In un’atmosfera rarefatta, che ricorda un poco l’opera teatrale di Samuel Beckett, Aspettando Godot, Larry, uno dei due venditori navigati, cerca di insegnare il mestiere a Bob, giovanotto idealista. Bob è disorientato, perché Larry sostiene che le persone, in un’organizzazione, sono soprattutto funzioni: “Lo sai, se ci pensi bene, in realtà, non c’è anima viva qui. Credi di vedere persone per i corridoi, ma non è così. Quel che vedi sono funzioni. Questa è la natura di una convention”. Bob replica: “Mi sembra un tantino impersonale”. In seguito, Bob ritorna sul tema e chiede, in modo provocatorio: “Se noi qui siamo soltanto delle funzioni, perché non mandano dei robot, allora?”. Larry ribatte: “Non mandano dei robot per la semplice ragione che non li hanno ancora inventati. Verrà il giorno in cui costruiranno un robot che fa quello che facciamo noi, e magari meglio, allora vedrai che ce lo manderanno. Puoi starne certo. Ma fino a quel giorno, mandano noi”.
Eccoci qui. Possiamo finalmente dire che i robot – le macchine pensanti, le Intelligenze Artificiali – sono arrivati. Possiamo anche dire che le macchine fanno tante attività meglio dell’uomo. Per questo ritengo che molte professioni scompariranno e, allo stesso tempo, ne nasceranno di nuove. Il numero delle seconde compenserà la riduzione delle prime? Difficile prevederlo, ma sarei propenso a rispondere: “Solo in parte”. Il fenomeno c’interroga: dobbiamo temere le macchine?
Sinceramente, non mi spaventano. È il ‘bipede implume’ a farmi paura, talvolta. M’inquieta quando non pensa, quando non si pone interrogativi, quando si comporta in modo automatico, quando non esercita il proprio discernimento, quando è ridotto a macchina. Il problema non credo consista nel ruolo che concediamo alle macchine, ma risiede nel valore che attribuiamo all’umano. L’umano si esprime nella scelta di quel piccolissimo spazio che solo noi sappiamo abitare, ossia il luogo del dubbio: facciamo bene a fare così oppure no? Possiamo addestrare una macchina a simulare il dubbio, ma solo noi umani possiamo autenticamente dubitare, ossia ‘stare’ in una domanda che non abbia una risposta immediata, certa, calcolatoria e utilitaristica: “Sarà giusto assumere questa persona? È corretto licenziare quest’altra? Quali sono le migliori risorse formative per i nostri collaboratori? Quella persona è veramente soddisfatta del lavoro che svolge?”.
Esercitare il dubbio è crescere, evolvere, scegliere, magari in modo meno efficiente, ma compassionevole. Dubitare vuol dire sbagliare e correggersi. Significa provare dolore per una caduta e orgoglio per un successo (un motore scacchistico prova la stessa cosa quando vince e quando perde: nulla!). Dubitare sta nel domandarsi se si ami o no il proprio lavoro. Sono convinto che questa rivoluzione tecnologica implichi un mutamento più profondo, etico e identitario. Probabilmente ci vorrà molto coraggio, perché alcuni valori imprenditoriali e manageriali dovranno cambiare, alcuni modelli di sviluppo dovranno lasciare il posto a soluzioni più inclusive e sostenibili.
Forse è giunto il momento in cui si svelerà un nuovo senso della radice etimologica di “robot”, che evoca la schiavitù e lo schiavo. Confrontarci con le macchine ci farà capire che noi siamo chiamati ad altro: alla libertà e alla dignità, per esempio.
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tecnologia, Intelligenza artificiale, robot, dubbio, fantascienza