Mismatch

Chi forma le competenze del presente (e del futuro)?

A ottobre 2021, il disallineamento tra disoccupazione e ricerca di personale era al 36,5%. Un mese dopo il mismatch tra domanda e offerta ha toccato il 38,5% (l’8% in più rispetto allo stesso mese del 2019). Le aziende, secondo l’Osservatorio Excelsior di Unioncamere e Agenzia nazionale politiche attive del lavoro (Anpal) che hanno diffuso questi dati, non riescono a trovare quattro profili su 10 e la situazione si sta facendo sempre più preoccupante: nonostante gli allarmi delle ricerche secondo cui i robot ci porteranno via il lavoro – l’ultima è quella dal titolo “Rischi di automazione delle occupazioni: una stima per l’Italia”, pubblicata sulla rivista Stato e Mercato del Mulino, secondo cui 800 professioni saranno presto automatizzate – le imprese hanno ancora bisogno di persone per svolgere varie mansioni.

Ma se non si trova personale con le competenze richieste, quali sono le conseguenze? Sono diverse, perché la carenza di potenziali lavoratori – che non riguarda solo le attività di produzione, ma anche altre funzioni come la Comunicazione e le Risorse Umane – significa una serrata competizione tra aziende che devono concentrarsi per non perdere i talenti e nello stesso tempo devono diventare più attrattive per contendersi i candidati.

Impostare le strategie per attrarre i candidati

Che la questione sia seria lo confermano anche le singole imprese. Laica, per esempio, azienda di produzione di cioccolatini di Arona, in provincia di Novara, ha la necessità costante di inserire nuovi collaboratori in organico per far fronte alle attività legata alla stagionalità. “In questo momento i candidati sono nella condizione di poter scegliere l’azienda che ritengono essere più interessante per loro”, dice il Titolare e Direttore Tecnico di Laica Fabio Saini. Insomma, i rapporti di ‘forza’ si sono invertiti, arrivano a una “sorta di inversione dei ruoli”: “Oggi sempre di più è il candidato che ‘fa il colloquio’ all’azienda interessata ad assumerlo”.

Nulla di male, se non che non tutte le aziende sono preparate per far fronte al nuovo scenario, tanto che per numerose imprese sta aumentando la difficoltà nella ricerca del personale, sia per quanto riguarda le figure qualificate sia quelle con mansioni più tradizionali. “È sempre più importante diventare attraenti verso l’esterno, offrendo ai potenziali candidati luoghi di lavoro stimolanti, accoglienti e formativi”, continua Saini. Se questo vale in generale, serve poi concentrarsi sulle singole generazioni per individuare quel fattore che consenta di rendere l’organizzazione realmente attrattiva. “Per esempio i Millennial sono interessati a lavorare in aziende attente alla sostenibilità, che deve essere declinata rispetto alle questioni ambientali, economiche e sociali”.

Qualche esperto suggerisce che per diventare più attrattivi e stimolare il ricambio generazionale – anche per far fronte all’innovazione tecnologica – serve concentrarsi sempre meno sulle competenze specifiche (ovvero le capacità di svolgere un preciso lavoro o di saper utilizzare uno strumento particolare), ma bisogna puntare a trovare persone dotate di soft skill, in particolare quelle che consentono di adattarsi e aggiornarsi in continuazione.

Un modo per tentare di risolvere il mismatch tra competenze cercate e skill di cui sono dotate attualmente i candidati potrebbe essere la formazione. Scolastica, più che interna all’azienda. Ne è convinto lo stesso Saini: “Recentemente abbiamo partecipato a un incontro promosso dall’Associazione industriali e dall’ITIS Leonardo Da Vinci di Borgomanero, cui hanno aderito numerose aziende. L’obiettivo è quello di sostenere la scuola nella sua attività formativa grazie al supporto delle imprese che si sono dichiarate pronte a offrire risorse per l’ammodernamento dei laboratori di meccanica, automazione ed elettrico”.

La cooperazione tra aziende è secondo lui un’evoluzione necessaria per consentire alla scuola di formare i giovani offrendo strumenti adeguati e soprattutto scardinando l’idea che gli ITIS e gli Istituti tecnici statali (ITS) siano una soluzione di ripiego alternativa all’università. “Spesso c’è l’idea che lavorare in fabbrica sia un’attività svilente. Oggi, sempre di più, il ruolo degli operai è in realtà quello di operatori di controllo delle macchine, che richiedono livelli di conoscenze tecniche crescenti rispetto al passato”, spiega il Titolare di Laica.

Il dialogo tra aziende e ITS forma gli addetti più richiesti

Su questi aspetti è d’accordo Mauro De Martini, che nel corso della sua carriera ha lavorato nel Metalmeccanico come Direttore del Personale, collaborando poi con l’Associazione dei costruttori italiani di macchine utensili (Ucimu), proseguendo la sua attività come consulente e formatore aziendale. Nel 2005 ha collaborato alla fondazione dell’ITS Rizzoli di Milano, dove oggi insegna ‘comportamenti organizzativi’, collabora alla progettazione dei percorsi ed è presidente del Comitato Tecnico Scientifico. Secondo De Martini, questi istituti possono essere, in parte, una soluzione al problema, perché rappresentano un percorso post diploma altamente qualificante, in linea con il fabbisogno di tecnici e tecnologi percepito dalle aziende. Gli ITS inoltre appartengono al segmento di formazione terziaria non universitaria e consentono di acquisire crediti universitari. Il problema è che gli ITS non sono ancora sufficientemente conosciuti e i numeri dei diplomati in uscita non consente di soddisfare le esigenze delle imprese. “Si sta lavorando per potenziare l’orientamento nelle scuole superiori, fornendo un’informazione diffusa sui percorsi ITS in generale, sugli specifici percorsi proposti dai vari Istituti Tecnici Superiori, in tutto il Paese. Inoltre, il sistema di orientamento sta cercando di formare, presso le scuole secondarie, figure in grado di guidare gli studenti anche verso percorsi alternativi alle università”, dice De Martini, sottolineando come il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) abbia destinato 1,5 miliardi di euro proprio agli ITS, a conferma che ne è stata riconosciuta l’importanza formativa e il ruolo cardine per formare persone con le competenze richieste dalle aziende.

Oltre al fatto che gli ITS non sono ancora molto conosciuti, c’è un problema legato al fatto che talvolta i giovani, al termine delle scuole superiori, immaginano che si possa andare a lavorare in fabbrica, occupando ruoli di coordinamento tecnico, senza un’adeguata specializzazione, se non quella che verrà costruita sul campo. C’è poi chi sceglie l’università, orientandosi verso Ingegneria (anche per queste materie c’è ancora un forte gap da colmare: in Italia abbiamo 1milione di ingegneri e scienziati contro i 3,1 della Germania, come indicato nel 2018 da Eurostat). “Non tutti però sono disposti a fare ingegneria o, in generale, a laurearsi, impiegando vari anni prima di entrare nel mondo del lavoro. Chi cerca un inserimento più rapido in azienda, caratterizzato dallo svolgimento di mansioni e ruoli tecnici, può formarsi e specializzarsi frequentando l’ITS, che dialogando con il territorio e con le aziende e propone soluzioni di inserimento più veloci”, conferma De Martini.

Chi frequenta questi istituti cerca di formare competenze rapidamente riconoscibili dalle imprese, perché i programmi sono orientati a ciò che le aziende hanno bisogno nel medio periodo ed è con le imprese che si costruiscono i percorsi di studi: per esempio, oggi servono esperti di digitalizzazione dei processi, di Industry 4.0, di analisi di dati, di Intelligenza artificiale e Machine learning, di sviluppatori, di specialisti di cybersecurity, networking, cloud computing, di addetti a sistemi automatizzati, semi automatizzati, robot e robot collaborativi. Tutti argomenti trattati negli ITS, che sono caratterizzati anche dai docenti, molti dei quali provengono dalle aziende o hanno esperienze maturate sul campo in varie imprese. “In questo modo si formano i futuri lavoratori dotati delle competenze necessarie, costantemente aggiornati rispetto alle necessità reali del mercato del lavoro”.

Le aziende poi lavorano in sinergia con gli ITS, diventando potenziali attori di trasferimento tecnologico, facendo sì che gli studenti imparino a utilizzare le ultime tecnologie e non, come talora accade, su strumenti obsoleti. “In Germania hanno capito da tempo il potenziale di competitività offerto dalla collaborazione tra scuola e impresa e dal valore della formazione terziaria professionalizzante, pertanto hanno generato numeri migliori rispetto all’Italia e con molto anticipo: il modello duale delle Fachhochschulen tedesche conta circa 800mila iscritti all’anno, contro poco più dei 18mila iscritti agli ITS italiani, come hanno fatto sapere da Fondazione Altagamma, il comitato dei marchi del lusso italiano. Il Pnrr punta a decuplicare i numeri dei Tecnici superiori nei prossimi cinque anni, proprio per recuperare il ritardo accumulato”, osserva De Martini.

Al termine del percorso di studi, i giovani che hanno frequentato l’ITS (generalmente di durata biennale, in alcuni casi triennale) sono pronti per entrare nelle aziende. “I percorsi dell’ITS Rizzoli hanno percentuali di placement, complessivamente, su tutti i percorsi, alte o molto alte, e non stupisce”, sostiene De Martini, sottolineando come i diplomati di un ITS siano pronti dal punto di vista pratico. Questo dato è coerente con la media italiana, che è molto elevata: l’Istituto nazionale documentazione innovazione ricerca educative (Indire), su richiesta del Ministero dell’Istruzione, ha diffuso a ottobre 2021 i dati relativi agli ITS ed è emerso che i diplomati trovano lavoro a un anno dalla conclusione degli studi nell’80% dei casi. Il motivo è, secondo De Martini, facilmente intuibile: “Non hanno una formazione accademica, che è culturalmente ampia, ma hanno spiccate competenze verticali e specialistiche di tutto rispetto”, dichiara l’intervistato.

Investire nel formare tecnici

Un ulteriore problema che, sottolinea De Martini, potrebbe ostacolare la soluzione al mismatch tra domanda e offerta, è la realtà strutturale delle aziende che, chiaramente, esprime dal punto di vista qualitativo bisogni orientati soprattutto ai tecnici: “Quando i giovani si laureano probabilmente ambiscono, secondo un’opinione personale maturata negli anni, ad arrivare in tempi più brevi a posizioni più elevate – di coordinamento, manageriali, direttive – in grado di corrispondere, in termini retributivi e di carriera, all’investimento fatto con anni di studio”. Alle aziende, oggi, servono tuttavia secondo il formatore soprattutto figure di tecnici intermedi, ossia persone in grado di risolvere tecnicamente, in prima persona o in team, problemi operativi quotidiani. Le posizioni di coordinamento, inevitabilmente, sono meno numerose. Vi è pertanto un potenziale disallineamento tra le attese dei laureati e i bisogni espressi dalle imprese, anche solo per quanto riguarda i numeri. Diverso è il caso dei diplomati all’ITS, già orientati a un lavoro pratico: “Sanno che diventeranno tecnici. Quella è la loro prospettiva. Verosimilmente, le loro attese non saranno deluse”.

Secondo De Martini, dunque, gli ITS potrebbero realmente dare un contributo di grande valore nel formare le competenze di cui c’è bisogno in fase di ripartenza. “Non è una scelta rinunciataria rispetto all’università. Chi vuole diventare un tecnico, una figura operativa, con spiccate abilità applicative, sceglie in maniera determinata”. E non si pensi che si tratta di un corso di studi ‘semplice’: “Tutte le unità formative tecniche, le unità formative trasversali e quelle indirizzate a formare soft skill sono molto sfidanti. Come in tutti i precorsi seri, se non ci si impegna, non si riesce a proseguire”. Ma c’è una barriera ancora da superare: “Possiamo fare classi con un numero limitato di persone. L’ITS, ogni anno, accetta candidature in misura proporzionale alle risorse di cui può disporre, in funzione dei percorsi che riesce ad aggiudicarsi, attraverso avvisi pubblici di finanziamento”. La soluzione? Potenziare quantitativamente l’offerta formativa, mantenere alta la qualità della formazione, far conoscere i percorsi ITS, collaborare in modo sempre più robusto con le imprese, coinvolgendole, in modo che le figure in uscita siano realmente coerenti con i loro fabbisogni. In questo senso i fondi del Pnrr potrebbero secondo De Martini fare la differenza nella risoluzione del problema del mismatch tra domanda e offerta.

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Sara Polotti

Sara Polotti è giornalista pubblicista dal 2016, ma scrive dal 2010, quando durante gli anni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore (facoltà di Lettere e Filosofia) recensiva mostre ed eventi artistici per piccole testate online. Negli anni si è dedicata alla critica teatrale e fotografica, arrivando poi a occuparsi di contenuti differenti per riviste online e cartacee. Legge moltissimo, ama le serie tivù ed è fervente sostenitrice dei diritti civili, dell’uguaglianza e della rappresentazione inclusiva, oltre che dell’ecosostenibilità.

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