Dalla Platform economy alla Manifattura distribuita
La convergenza apparentemente lenta tra alcuni diversi e slegati avvenimenti sta trasformando piuttosto velocemente la forma del territorio, la quale dipende storicamente dai processi di produzione e di scambio che in esso avvengono. Qualcosa dei fenomeni dei quali stiamo parlando assomiglia a vicende vissute nella memoria dei più anziani tra noi, altri di questi sono invece inediti e stiamo cercando di modellizzarli per meglio verificarne la velocità e la verità nei dati della trasformazione in atto nelle nostre città. Parliamo di alcune conseguenze di un fenomeno che ha diverse facce:
- le condizioni di rientro in Europa dei processi di produzione esternalizzati fuori dal continente;
- la trasformazione degli impedimenti e dei costi di movimentazione e logistica delle merci lungo la filiera globalizzata;
- gli effetti delle cosiddette “economie di piattaforma” sviluppate intorno alle potenzialità degli scambi digitali di beni analogici;
- la natura storicamente distribuita dei processi produttivi nel nostro Paese;
- la potenzialità delle economie che si formano da sempre laddove le filiere si interrompono.
Si tratta di una serie di trasformazioni che sembrano essersi date un ‘appuntamento’ nella storia, ma che in realtà sono in parte collegate tra esse e i cui effetti sono sorprendenti e importanti, non solo per le rinnovate condizioni economiche di cui dobbiamo tenere conto nel medio periodo all’interno delle strategie di sviluppo delle nostre imprese manifatturiere, ma anche per come il territorio sarà condizionato dagli effetti interconnessi di questi flussi.
L’impatto della Platform economy
Il 2 dicembre 2021 presso l’Università di Bologna sono stati raccontati gli effetti del cambiamento che queste economie apparentemente inedite stanno provocando in quella regionale e nella trasformazione delle nostre città. Una giornata per raccontare gli effetti del progetto europeo Platform labour in urban spaces (Plus), coordinato dall’Università di Bologna studiando Airbnb, Deliveroo, Helping e Uber nella vita di sette città europee: Barcellona, Berlino, Bologna, Lisbona, Londra, Parigi e Tallinn. La capacità di condizionare e colonizzare il territorio da parte di queste piattaforme è più rilevante di quanto possa apparire superficialmente. Mutamento del valore dei suoi metri quadri e delle superfici, ridefinizione della popolazione residente e della sua convenienza a risiedere in un certo luogo urbano, accelerazione delle economie di vicinanza e di localizzazione urbana.
Cosa fanno queste piattaforme? Cambiano la disponibilità di servizi, influiscono sul loro costo a breve termine, valorizzano l’asset immateriale e smaterializzano rapidamente le rendite a diposizione di professioni e luoghi che sottostanno a regole di protezione e di blocco del mercato (leggi licenze dei taxi, numero di licenze di commercio a numero chiuso, quantità di posti letto negli hotel, ecc.) Gli effetti sono molto interessanti nella vita di tutti i giorni di noi come consumatori e cittadini, ma il tema che trattiamo qui è la similitudine tra quello che sta succedendo nel mondo B2C della realtà urbana e quello che potrebbe, ma sta in realtà sta già accadendo, in alcune parti del globo come la California e la Repubblica Popolare Cinese.
In alcune parti degli Stati Uniti, nei quali da circa 30 anni è avvenuta una delocalizzazione spinta della Manifattura produttiva verso Oriente o verso il Messico e il Sud America, si sono rese necessarie e indispensabili piattaforme di connessione veloce tra imprese capaci di effettuare lavorazioni conto terzi customizzate e in piccola serie e imprese madri che non trovano più nel territorio (né a livello globale in condizioni attuali) terzisti e lavoratori in grado realizzare determinate lavorazioni dei componenti e dei materiali.
Queste piattaforme sono in grado di collegare in tempi molto ragionevoli, anzi stupefacenti da un punto di vista temporale e logistico, produttori e subfornitura, ottenendo di fatto la rottura spazio-temporale delle economie distrettuali o di vicinanza e di localizzazione. L’effetto è il reshoring da estero e la frantumazione su un territorio molto esteso tra Canada e Messico di una miriade di lavorazioni frantumate che sopravvivono a breve termine grazie alla gestione coordinata di una grande quantità di ordini dei quali non conoscono l’origine né le condizioni economiche di ingaggio. Esattamente quello che succede in termini di intermediazione da parte di Airbnb quando mette a disposizione globale residenze di privati che a determinate condizioni (fortemente convenienti, che non si possono dire ‘di mercato’) si connettono con la domanda che non saprebbero intercettare da sole.
In Cina questo avviene da più tempo e l’impatto di questa dinamica, governata da piattaforme industriali quali Alibaba (la più famosa), compromette di fatto le basi della “fabbrica del mondo”, rompendo le relazioni tradizionalmente costituitesi dentro a filiere di tradizione locale. Per cui, all’enorme traffico interno dovuto alla logistica delle materie prime e dei prodotti finiti, da qualche tempo si sovrappone l’ingentissimo traffico delle lavorazioni intermedie, dei componenti, dei processi parziali decentrati di produzione, che a volte avvengono a migliaia di chilometri dal luogo di ordine.
Dalla fabbrica automatizzata alla manifattura destrutturata
Brillano in questo momento le soluzioni produttive rappresentate da cluster di imprese che sono state acquisite per aggregazione progressiva da alcuni altrettanti brillanti gruppi industriali. Questi cluster riescono a coprire necessità di produzione flessibile e di diversificazione produttiva mettendo in connessione tra loro le capacità di lavorazione di numeri sorprendenti di aziende di media e piccola dimensione. Il gruppo che si forma riesce a ottenere economie di scala che non sono basate sui grandi numeri produttivi, ma sulla possibilità di realizzare economie di lotto unico guadagnandoci anche a prezzi sorprendenti. Frutto di spezzettamenti della filiera, specializzazione spinta, pieno impiego degli spazi e degli impianti, gestione di traffici interni al cluster di competenze e di costi fissi condivisi.
Completano questi cluster i cosiddetti “laboratori diffusi”, già visti nel nostro Paese quando negli Anni 50-60 eravamo noi la fabbrica del mondo e in ogni casa del Centro Nord si facevano lavorazioni a cottimo di parti industriali che sarebbero poi state assemblate in casa madre. Specializzazione, rotazione, diversificazione, espansione e repentina contrazione degli ordini, alta competenza verticale, flessibilità di consegna: non sono più contraddizioni in questa forma produttiva multicellulare sistemica, che l’ingegnere e consulente Giorgio Merli negli Anni 90 aveva soprannominato “olonica virtuale” e che nella contemporaneità diventa clusterizzata monocellulare.
Le zone franche, dove la catena logistica si interrompe
Nel primo esame universitario di Urbanistica mi imbattei nelle leggi della localizzazione produttiva (tra cui quelle del premio Nobel 2009 per l’Economia Oliver Williamson). In un lacerto di quei ricordi sono oggi a maneggiare la logica che favorisce la formazione di zone di produzione e lavorazione (e perfino di distribuzione) che si insediano laddove la catena logistica si interrompe. È il tipico caso dei porti marittimi nei quali arrivano le navi cargo di materie prime o materiali e componenti, e in questi luoghi avvengono ‘rotture’ del processo veloce di scambio. Una volta avvenuto lo stop (per ragioni doganali, di interscambio tra sistemi di trasporto, per problemi di attesa di ricezione o di immagazzinamento di scorte) ecco che nel medesimo luogo diventa incredibilmente conveniente procedere a localizzare attività di trasformazione, assemblaggio, lavorazione, distribuzione diretta. Così i porti franchi diventano zone a fiscalità privilegiata (soprattutto in Oriente), fiere di mercato, luoghi di produzione, capaci di attrarre capitali e localizzazioni produttive specializzate.
Economia del temporary
Infine, nei processi produttivi evoluti si sarebbe pensato che la decisione di praticare un solido investimento di lungo termine avrebbe pagato permettendo di costituire economie di scala e di specializzazione notevoli. Ma la storia recente non dà merito a questa ipotesi. In un’economia di trasformazione, come quella tipica del nostro Made in Italy, le attività scelgono per convenienza di stare vicino ai loro mercati serviti, e di conseguenza tendono a spostarsi con lo spostamento della domanda. Ma siccome questo ha come effetto la necessità di trasferire la manodopera – che nel nostro Paese è a tutti gli effetti la più cosa più difficile da fare – l’esito sembra essere quello di creare luoghi di intermediazione a tempo determinato che raggiungono periodicamente i clienti serviti con una sorta di fiera tradizionale periodica che fa sentire il fornitore vicino, anche se localizzato ovunque nel globo.
La situazione pandemica privilegia l’economia regionale
In tutto questo, un influsso non marginale, ma prematuro da leggere, lo giocano le economie del post covid-19. La prima sensazione è che la pandemia sostiene questi fenomeni e li esacerba privilegiando l’economia regionale (oggi continentale, di fatto), più che la distanza fisica in chilometri, la creazione di aree speciali autonome presso i luoghi di rottura della catena di trasferimento o di lavorazione (in primis nei porti o interporti), legando la manodopera dei colletti blu al territorio (più di prima) e privilegiando invece la mobilità degli specialisti e dei colletti bianchi del management e della finanza o dei mestieri progettuali.
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Professore Ordinario di Disegno Industriale presso il dipartimento DA, Alma Mater Studiorum, dell’Università di Bologna
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