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Siamo vittime o carnefici delle piattaforme?

Su Amazon, di solito, siamo abituati a leggere tutto il male possibile. Numerose sono le accuse mosse al gigante del web che, è noto, negli ultimi anni ha visto crescere il suo business. Basti pensare che nel primo trimestre del 2021, come conseguenza della pandemia, i profitti sono più che triplicati, arrivando a 8,1 miliardi di dollari (circa 7 miliardi di euro). Gli utili per azione sono stati pari a 15,79 dollari, contro i 9,54 attesi. L’aumento del fatturato è stato del 44%, ovvero 108,52 miliardi di dollari (circa 94 miliardi di euro).

Secondo uno studio di The European House – Ambrosetti, che ha analizzato i bilanci di alcune grandi aziende, Amazon è anche la società che ha creato più posti di lavoro in Italia negli ultimi 10 anni (il periodo considerato è quello tra il 2011 e il 2020). Nel 2020 l’azienda di Jeff Bezos ha investito nel nostro Paese 2,9 miliardi di euro, che si sommano agli 1,8 miliardi del 2019, portando a 8,7 miliardi il totale dall’apertura di Amazon.it nel 2010.

Come si spiegano questi numeri da capogiro? Prima di tutto serve avere a mente che il vero business di Amazon non è la vendita online di prodotti: contrariamente a quanto si crede, l’ecommerce è marginale all’interno del bilancio del colosso statunitense. D’altra parte, è lecito chiedersi come possa essere in attivo nonostante l’efficienza del servizio, che certamente ha un costo fuori dal comune, visto che alla prima lamentela del cliente si sa che, senza indagare troppo, Amazon risolve tutto inviando un nuovo prodotto nell’arco di circa 24 ore o rimborsando l’utente.

Il Cloud computing è il forziere di Amazon

I dati svelano che il guadagno principale è arrivato da Amazon web services, la divisione di Cloud computing che, dal 2016, rappresenta la parte più consistente dell’utile operativo. Analizzando il bilancio di Amazon del 2019, infatti, si evince che, nel 2018, sono stati incassati 25,7 miliardi di dollari (circa 21 miliardi di euro) dai servizi in cloud, con un utile di gestione di 7,3 miliardi di dollari, che rappresenta il 58% del reddito operativo nell’ultimo trimestre. Inoltre, nel primo trimestre del 2021 Amazon web services ha riportato una crescita del business del 32%.

Per condividere la questione con chi ha meno familiarità con la tecnologia, la stessa Amazon spiega sul suo sito che il cloud è anche il “sistema per erogare potenza di elaborazione, storage di database, applicazioni e altre risorse IT on demand tramite una piattaforma di servizi via Internet con tariffe a consumo”. In pratica si tratta di una soluzione che permette alle aziende di acquistare maggiore potenza di archiviazione o elaborazione dati, senza avere a disposizione l’hardware necessario per riuscirci. Persino colossi come Netflix o AirBnB si appoggiano a questa infrastruttura digitale. Un’altra importante voce di ricavi per Amazon è costituita dal Business advertising. Sempre nella prima relazione trimestrale 2021, si parla di un incremento delle entrate del 77%.

L’algocrazia: il potere nelle mani dei signori delle piattaforme

Numeri a parte, ci siamo resi conto da tempo della pervasività del colosso dell’ecommerce: si consideri le capacità della tecnologia nel proporre pubblicità e suggerimenti proprio di ciò che ci interessa maggiormente in quel momento. È un principio già analizzato, anche se per altre realtà: nel 2017, sul settimanale L’Internazionale, il giornalista britannico John Lancaster scriveva un articolo dal titolo emblematico “La merce sei tu”, riferito, in questo caso, alle discussioni sulla gratuità di alcuni servizi di Facebook e altre aziende digitali. È diventata celebre, in tal senso, la citazione del docufilm prodotto da Netflix nel 2020, The social dilemma: “Se il servizio è gratis, il prodotto sei tu”, volta a significare che, in realtà, sono i nostri dati il prezzo che paghiamo per fruire dei diversi social network e di molte App.

Claudio Paolucci, allievo di Umberto Eco, ha invece coniato il termine “algocrazia”, proprio per confermare come ormai il potere sia nelle mani di chi programma le piattaforme. Si capisce così come oggi siamo mantenuti in una ‘bolla digitale’ che governa i nostri gusti e pilota le nostre scelte, rafforzando le nostre convinzioni pregresse. È chiaro ormai a tutti, però, che è praticamente impossibile uscire da questa ‘gabbia digitale’ che ci siamo costruiti: l’unico antidoto è mantenere viva e vivace la nostra intelligenza naturale al cospetto di quella artificiale.

Le strategie della Gdo per influenzare le scelte degli acquirenti

Ma tutto questo è davvero una novità assoluta? Decisamente no. Pur in tutt’altro contesto, e pure con fiscalità e regole competitive decisamente diverse, anche la Grande distribuzione (Gdo), dal suo sorgere, ha sempre cercato di indirizzare le scelte dei consumatori. Le strategie di collocamento dei prodotti sugli scaffali – ormai lo sappiamo – seguono regole ben precise. Anche lo studio di tale strategia di marketing è influenzato e supportato dall’Intelligenza Artificiale. Questa disciplina si chiama “Shelf marketing” e ha lo scopo di influenzare l’acquirente, esattamente come fanno gli algoritmi: il mancato riassortimento di un prodotto, la quantità che ne è disponibile e le politiche di prezzo ricoprono un ruolo fondamentale. Non solo: anche la Gdo è in grado di determinare il mercato e sentenzia sulla vita e la morte dei piccoli produttori locali, così come dei grandi marchi. Un fenomeno oggi ampliato proprio dai colossi online.

Questo processo è ben descritto nel libro del 2007 dal titolo Falce e carrello, scritto dall’allora patron di Esselunga Bernardo Caprotti: negli Anni 50 del Novecento, ascoltando per caso una telefonata di Nelson Rockefeller, l’imprenditore scoprì come il magnate statunitense avesse intenzione di portare in Italia i supermarket, con il supporto de La Rinascente. Si fece avanti e ottenne di entrare in società con quello che sarebbe diventato il Governatore di New York, dando vita così alla Supermarkets Italiani Spa, di cui tutti, ora, conosciamo l’evoluzione.

Caprotti era già erede di una famiglia di imprenditori del Tessile, ma ebbe il coraggio di lasciare totalmente il settore, intuendo la maggiore dinamicità e modernità della Gdo. E sempre nel libro, il patron di Esselunga denuncia, senza timore, la concorrenza delle grandi cooperative del settore: proprio questi passaggi gli sono costati diverse querele per diffamazione, poi rigettate in tutti i gradi d’appello.

Se Davide sfida Golia non sempre riesce a vincere

Il supermercato è quindi diventato il classico ‘Davide contro Golia’ ben prima delle imprese dell’ecommerce, con gli esercizi di vicinato e i piccoli produttori locali a rappresentare il secondo personaggio dell’episodio biblico. Eppure, oggi i supermercati stessi sono in crisi: secondo un report dal titolo “Scenario economico e dinamica dei consumi” di Federdistribuzione, in Italia dal 2013 a oggi hanno chiuso 42 ipermercati e circa 7mila supermercati, di piccole e medie dimensioni. La ‘spesa online’, con consegna a domicilio, dopo l’inizio della pandemia da Covid-19 si sta diffondendo sempre di più. Ma le vendite, per ora, arrancano, come testimoniato da un’inchiesta de La Stampa di novembre 2021: i supermercati faticano a compensare gli ingenti investimenti fatti in termini di logistica e piattaforme digitali.

Fare la spesa in un supermercato fisico regala un’esperienza che va oltre l’atto in sé dell’acquisto, ma, per contro, richiede tempo, spostamenti – dunque consumi – e ora richiede anche di vincere la paura della pandemia. Da tempo la Gdo ha provato a percorrere soluzioni alternative come la creazione e la promozione dei cosiddetti ‘private label’, ovvero si affida ai produttori per creare il proprio marchio per il medesimo prodotto: lo stesso stabilimento che produce i biscotti per una nota marca, per esempio, può produrre anche per la catena di supermercati, modificando esclusivamente il packaging oppure parte della ricetta. La differenza di prezzo è spesso notevole.

Nomisma presenta annualmente il Rapporto sulla marca del distributore, arrivato ormai alla 16esima edizione. Da esso si evince come i private label abbiano saputo ormai conquistare la fiducia del pubblico: non a caso, anche Amazon vende ora prodotti con il suo marchio. Come possono, allora, le realtà più piccole affermarsi? Una soluzione è lavorare su marketing e comunicazione, ma questi sono proprio i due settori in cui le Piccole e medie imprese italiane sono più carenti. La vera sfida per le PMI, dunque, si sposta inevitabilmente sulla Supply chain, dove è noto che i big siano in vantaggio, almeno fino a prima della pandemia.

Il potere del consumatore è ormai molto limitato

Oggi una catena più corta è diventato un vantaggio competitivo, perché permette di avere prodotti più freschi, di qualità, con la possibilità di riassortirli più velocemente, con scadenze più prolungate (dato che fanno ‘meno strada’ per arrivare sullo scaffale). Inoltre, il consumatore moderno è sensibile al risparmio energetico e di emissioni consentiti dal ben noto ‘Km 0’.

Infine, il consumatore è sempre più alla ricerca di alimenti che considera sani o tipici del proprio territorio: questo tipo di prodotti è caratterizzato da un elevato rischio di sprechi, per cui una Supply chain più agile in grado di adattarsi ai mutamenti è fondamentale. Organizzare bene l’approvvigionamento nei negozi fa la differenza: non a caso, i colossi del retail alimentare stanno aprendo punti vendita più piccoli nelle periferie, per seguire il consumatore. Anche questo si può considerare un portato della pandemia, come conseguenza dell’aumento degli smart worker a popolare le periferie a discapito dei grandi centri.

In questo scenario, tuttavia, i consumatori si scoprono vulnerabili e non certamente più in grado di invertire la rotta decisa da realtà ben più grandi. Gli algoritmi – lo sappiamo da tempo – non sono neutri, ma sono ormai parte di ogni aspetto della nostra vita: possiamo mantenere la nostra umanità soltanto esercitando il pensiero critico e coltivando quelle caratteristiche di socialità, relazionalità e creatività che nessuna Intelligenza Artificiale può sostituire o impedire. E neanche il Covid-19 può riuscirci.

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Chiara Pazzaglia

Bolognese, giornalista dal 2012, Chiara Pazzaglia ha sempre fatto della scrittura un mestiere. Laureata in Filosofia con il massimo dei voti all’Alma Mater Studiorum – Università degli Studi di Bologna, Baccelliera presso l’Università San Tommaso D’Aquino di Roma, ha all’attivo numerosi master e corsi di specializzazione, tra cui quello in Fundraising conseguito a Forlì e quello in Leadership femminile al Pontificio Ateneo Regina Apostolorum. Corrispondente per Bologna del quotidiano Avvenire, ricopre il ruolo di addetta stampa presso le Acli provinciali di Bologna, ente di Terzo Settore in cui riveste anche incarichi associativi. Ha pubblicato due libri per la casa editrice Franco Angeli, sul tema delle migrazioni e della sociologia del lavoro. Collabora con diverse testate nazionali, per cui si occupa specialmente di economia, di welfare, di lavoro e di politica.

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