Desincronizzazione_tempo

Il lavoro al tempo della non routine

La principale unità di riferimento temporale nella strutturazione delle giornate lavorative è la settimana. Su cinque giorni lavorativi spalmiamo le riunioni, gli appuntamenti, le deadline e gli obiettivi futuri. Il sabato e la domenica sono, o dovrebbero essere per la maggior parte dei lavoratori, di riposo.  

Nei sette giorni della settimana, incaselliamo la nostra vita: ci aiuta a organizzarci, ma soprattutto a relazionarci con gli altri, a condividere il tempo che scorre e la sua gestione insieme con le persone che si trovano sulla nostra stessa lunghezza d’onda. Nello scorrere delle giornate, dal lunedì alla domenica, una delle poche certezze che abbiamo è un concetto che con la pandemia ha assunto nuove sfumature e significati: la sincronizzazione, che fa sì che tutti svolgano le stesse attività negli stessi momenti. 

La settimana, come ha sottolineato lo storico statunitense David Henkin nel suo testo The week: a history of the unnatural rhythms that made us who we are, non ha una fondata correlazione con i fenomeni naturali e astronomici, a differenza per esempio di giorni, mesi, stagioni e anni. È sempre Henkin a sottolineare che la centralità di questo periodo cronologico si è affermata nel XIX secolo man mano che le società crescevano e si evolvevano. Rispetto alla fattoria, dove la necessità di coordinamento del lavoro era nettamente inferiore, in fabbrica era molto importante sapere che giorno fosse. Si tratta, insomma, di un fenomeno sociale, un tentativo di organizzare il tempo che però, come ogni convenzione, oscilla con le evoluzioni sociali. E l’emergenza sanitaria esplosa nel 2020 ha finito per ridimensionare non tanto la portata della settimana come unità di misura, quanto il valore della sincronizzazione e della simultaneità, mostrandone i limiti. 

Giovanni Costa, Professore Emerito di Strategia d’Impresa e Organizzazione Aziendale all’Università di Padova, sostiene come essere sincronizzati e svolgere le attività in determinati giorni della settimana è anche una forma di ritualità che genera a sua volta identità: significa condividere un destino comune. Ci sono poi altri aspetti, come quello finanziario che permette di realizzare economie di scala; quello politico che vede nella strutturazione del tempo una corsia preferenziale per il controllo; quello urbanistico che fa sì che la gestione dei flussi sia ben identificata. Ma, sottolinea sempre l’esperto, ci sono anche dei costi legati a questo: “Il fatto che molte persone svolgano le medesime attività utilizzando le stesse infrastrutture in contemporanea porta ad alcune diseconomie e problemi di vario tipo”. Aspetti che con la pandemia sono emersi in tutta la loro portata rendendo impraticabili, per evitare la diffusione del contagio, per esempio, attività fino a quel momento considerate scontate come prendere la metropolitana all’ora di punta. “Questa strutturazione convenzionale del tempo ha dimostrato fino a un certo momento di funzionare. Adesso noi cogliamo, invece, tutte le sue disfunzionalità”, spiega Costa. 

L’identità sociale e lavorativa che scricchiola 

In primo luogo, ai processi tipici di un mondo sincronizzato è legato il fenomeno degli assembramenti e del sovraffollamento. Le grandi concentrazioni di persone – conseguenze della sincronizzazione – fanno sì che le strutture siano stressate dal punto di vista quantitativo e rendono la società più esposta alla pandemia e, quindi, più fragile. Per far fronte a questa criticità con il sopraggiungere della pandemia ci si è affidati alle attività a distanza e al lavoro da remoto, elementi che dal punto di vista di Costa hanno creato una grande discontinuità nel rapporto spazio-tempo, mostrando luci e ombre della sincronizzazione. “Tutti i vantaggi si sono confrontati con i benefici ugualmente significativi di quello che definisco come ‘disaccoppiamento spazio-temporale’, consentendo un miglior utilizzo degli spazi, economie di mobilità e il massiccio emergere delle potenzialità delle connessioni digitali. In parallelo sono però emersi anche i costi sociali, perché non si hanno più quei fenomeni aggregativi di identità sociale e lavorativa, di riconoscimento di ruoli reciproci all’interno del mondo del lavoro e del mondo economico. Tutto questo va gestito”, spiega l’esperto. 

Il disaccoppiamento cui si fa riferimento era in atto da tempo e precede la pandemia. È una grande rivoluzione che ha a che fare con un diverso rapporto con lo spazio e con il tempo. Ha cominciato a ristrutturarsi, per esempio, con l’emergere del lavoro autonomo a discapito di quello subordinato. Il fenomeno rientra senza dubbio nell’affermarsi della precarizzazione del lavoro, ma è anche una modalità alternativa di organizzare i tempi e gli spazi professionali. 

Il part time volontario si era già sviluppato, così come il lavoro nel weekend, tutte modalità alternative di strutturazione del lavoro di persone che preferiscono fare tre turni da 12 ore nel weekend e avere il resto della settimana libera. Penso che questo fenomeno sia destinato ad andare avanti quanto più le professioni si legano a componenti non materiali e quindi a particolari spazi e tempi”, precisa Costa. Intravedendo un movimento di fondo che corre veloce verso quella che lui stesso definisce “desincronizzazione”. 

Sfruttare la desincronizzazione per innovarsi 

Dal punto di vista di Costa, per sfruttare appieno le potenzialità di questa desincronizzazione è necessario innanzitutto uscire, nell’ambito lavorativo, dall’idea del controllo materiale. Come il lavoro agile ha dimostrato, mettendo in crisi molti dirigenti, ma anche molti lavoratori di diversi livelli, in una realtà desincronizzata la produttività è legata alla capacità di utilizzare in maniera creativa lo spazio e il tempo al servizio della prestazione. In questo contesto, con l’aumentare delle possibilità combinatorie aumentano anche quelle di dare un apporto di tipo innovativo al lavoro. Uno scenario che però il dibattito politico e l’opinione pubblica hanno spesso affrontato nell’ottica ‘a favore’ o ‘contro’, una prospettiva che rischia di annullare le potenzialità di ogni cambiamento. 

La Didattica a distanza (Dad) per Costa ne è un ottimo esempio: “È chiaro che se viene svolta senza pensare a che tipo di disciplina si sta insegnando, a chi sono i discenti e in quale contesto sociale la si fruisce, semplicemente mettendo una telecamera davanti a un docente che fa esattamente lo stesso discorso che farebbe in presenza, allora questa modalità di formazione è già condannata”, evidenzia il docente. Ma se la consideriamo, invece, come una possibilità di personalizzare il ritmo dell’apprendimento e di disporre di materiali infiniti dal punto di vista didattico e pedagogico, ecco allora che il tempo liberato può essere dedicato a seguire e supportare il processo di apprendimento attraverso queste nuove modalità. Faremmo allora un grosso passo in avanti, utilizzando la sciagura della pandemia in modo creativo. 

La ritualità lascia il posto all’alienazione 

Gli occhi, però, vanno tenuti aperti perché i risvolti della medaglia non mancano. I fenomeni di alienazione, di non identificazione e vere e proprie patologie dal punto di vista sociale trovano, infatti, un terreno molto fertile laddove manca la ritualità dei tempi strutturati. La prospettiva di Costa è che tutto ciò non andrebbe lasciato alla spontaneità e all’auto-organizzazione e sarebbe prezioso che davanti a fenomeni tanto complessi le istituzioni dedichino tempo ed energie per studiarli, capirli, assecondarli, ma anche contrastarli nei loro tratti più problematici. Nel tentativo non banale di scongiurare situazioni pericolose dal punto di vista dell’equilibrio psicofisico di ciascuno di noi. 

“Una delle conseguenze di questa rottura dell’accoppiamento tra spazio e tempo è il ‘nomadismo’, cioè il fatto di non essere legati agli stessi riti, ma di essere liberi di svolgere le proprie attività dove e quando si desidera. Ma non dobbiamo dimenticare che le capacità di adattamento dell’essere umano sono comunque limitate da questo punto di vista”, spiega Costa. Per non sprofondare nelle conseguenze negative di una trasformazione epocale, forse la risposta va cercata verso ritmi più lenti, più capaci di accompagnare le persone nelle loro evoluzioni sociali e personali. Ricordandoci che la strutturazione dei tempi ha impiegato secoli a definirsi e consolidarsi, mentre la sua destrutturazione si è consumata in qualche anno. Se non qualche settimana. 

Giovanni Costa, desincronizzazione, simultaneità, organizzazione spazio-tempo


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Erica Manniello

Laureata in Filosofia, Erica Manniello è giornalista professionista dal 2016, dopo aver svolto il praticantato giornalistico presso la Scuola superiore di Giornalismo “Massimo Baldini” all’Università Luiss Guido Carli. Ha lavorato come Responsabile Comunicazione e come giornalista freelance collaborando con testate come Internazionale, Redattore Sociale, Rockol, Grazia e Rolling Stone Italia, alternando l’interesse per la musica a quello per il sociale. Le fanno battere il cuore i lunghi viaggi in macchina, i concerti sotto palco, i quartieri dimenticati e la pizza con il gorgonzola.

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