Demotivante e poco coinvolgente: perché non ci piace più lavorare?
Da qualche mese ormai si sente parlare spesso di Great resignation, quel fenomeno Made in Usa che nell’estate del 2021 ha visto un incremento esponenziale delle dimissioni Oltreoceano, con picchi di 4,3 milioni di persone che hanno lasciato il lavoro nel solo mese di agosto. Anche l’Europa è stata colpita dal boom di fuoriuscite lavorative e nel secondo trimestre del 2021 la Great resignation sembrerebbe aver raggiunto anche l’Italia. Secondo il Ministero del Lavoro, da gennaio a settembre 2021 sono stati circa 1,3 milioni gli italiani che hanno interrotto volontariamente i rapporti lavorativi: un incremento del 30% rispetto al 2020.
Tuttavia è necessario guardare al quadro completo e in questo caso il fenomeno pare ridimensionarsi. A fronte dell’aumento delle dimissioni del 2021, c’è da rilevare che nel 2020 la pandemia ha congelato queste dinamiche, tanto che le cessazioni volontarie dal lavoro sono scese del 18% rispetto al 2019. In Italia, quindi, più che di Great resignation bisognerebbe parlare di ‘ritorno alla normalità’: la crescita delle dimissioni è dunque un fenomeno strutturale e a lungo termine. Ma quali sono le ragioni di questa situazione proprio nel nostro Paese?
Analizzando il Quinto Rapporto Censis-Eudaimon – il report è stato diffuso a inizio marzo 2022 – emerge che nonostante la Great resignation in Italia abbia assunto la dimensione appena descritta, non significa che il rapporto degli italiani con il lavoro sia salvo. Anzi, la nostra situazione sembra essere legata a quella che Massimo Valeri, Direttore Generale del Censis definisce “pragmatismo rassegnato”, cioè quella paura di restare disoccupati e che impedisce ai lavoratori, pur insoddisfatti, di dimettersi dal proprio posto di lavoro.
Il lavoro diventa un’attività marginale per le persone
L’analisi della ricerca fa emergere quindi una profonda estraniazione delle persone dal lavoro. La prima causa che genera la situazione è dovuta all’insoddisfazione per la retribuzione: il 58% dei lavoratori ritiene che il proprio salario non sia adeguato alla mansione svolta. Non a caso i dati confermano uno scenario già noto, perché negli ultimi 20 anni gli stipendi degli italiani sono diminuiti del 3,6% rispetto a quelli dei 34 paesi dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), mentre in Germania e Francia, per esempio, c’è stato un aumento di circa il 18%.
Ci si allontana dal lavoro anche per le conseguenze generate dallo stress lavorativo, che con la pandemia è di gran lunga aumentato. Per esempio è emerso il quadro di forte ansia per il cambiamento: si pensi a quello imposto dalla digitalizzazione che ha messo in difficoltà il 58% degli occupati, con un 45,4% che ha avuto problemi addirittura con la gestione della mail. A tutto questo si aggiunge anche un nuovo senso di insicurezza legato al lavoro (che a sua volta genera altra ansia): il 68,8% degli occupati, pensando al proprio lavoro, dichiara di sentirsi meno sicuro rispetto al 2020.
C’è poi un’ultima ragione che spiega la sempre più diffusa estraniazione dal lavoro e riguarda la sfera psicologica: il lavoro non motiva, non coinvolge e non contribuisce al senso di identità degli occupati. In sintesi è diventato esclusivamente lo strumento che permette di accedere ad altre opportunità, cioè quelle che ‘davvero contano’ per le persone e che non hanno nulla a che vedere con l’attività lavorativa (leggasi: attività della vita privata). E così si arriva alla profonda estraniazione dal lavoro che sta compromettendo i singoli rapporti delle persone con le aziende. Il futuro, poi, sembra essere ancora più incerto: “La questione non farà che peggiorare”, ha confermato Francesco Maietta, Responsabile dell’Area Politiche Sociali del Censis. “Ora che c’è la voglia e la possibilità di ‘tornare a vivere’, le spinte competitive marginalizzeranno ulteriormente il lavoro”.
Aggiornare il purpose per coinvolgere i lavoratori
Difficile trovare una soluzione a una situazione ormai seriamente compromessa. Ma quanto meno è dovere di imprenditori e manager provare a individuare una possibile alternativa. Per esempio si può colmare il deficit motivazionale dei lavoratori, coinvolgerli e fare in modo che vedano nell’azienda una realtà in cui identificarsi. Va proprio in questa direzione l’indicazione del Quinto Rapporto Censis-Eudaimon, che suggerisce due interventi.
Per prima cosa propone di agire sui salari: il welfare aziendale può giocare un ruolo di protagonista perché affiancarsi al reddito, diventando quindi la risposta alla richiesta di maggiore retribuzione. Ma i servizi di welfare possono pure aiutare a ridurre lo stress perché – se si imposta una giusta strategia di welfare aziendale – risponde ai reali bisogni delle persone e consente di aumentare il tempo per le attività extra lavoro, senza tuttavia sottrarre tempo alle altre.
La chiave per uscire dalla declinazione italiana della Great resignation sta proprio nell’affrontare la ragione psicologica che ha condotto alla disaffezione del lavoro da parte dei lavoratori. Il suggerimento – evidenziato in particolare nel rapporto da Eudaimon, primo player italiano a occuparsi di welfare aziendale – è l’evoluzione del purpose aziendale: “Nel ritorno all’ordinario sono indispensabili motivazioni collettive e senso della direzione di marcia, da cui possano discendere identità e appartenenza”. Sta adesso ai responsabili d’azienda, profondi conoscitori delle proprie organizzazioni, capire come mettere in pratica la proposta.
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