Leader gentile

Caro leader, sii gentile

Non può essere sfuggito a nessuno quanto il tema della gentilezza abbia pervaso il dibattito recente intorno alla questione della leadership e, più in generale, delle relazioni di lavoro. Qualificarla come una postura necessaria alla coltivazione di contesti organizzativi più vivibili è interessante per diverse ragioni. La prima è che questa prospettiva ‘costringe’ uno spostamento concettuale della relazione di lavoro; evoca una interazione fra soggetti ben prima che fra ruoli. La gentilezza sposta l’asse dello sguardo, assottiglia l’asimmetria, crea un campo di cura reciproca. 

L’etimologia della parola non ci aiuta moltissimo a dire il vero: dal latino “gentilem”, significa “proprio di qualche gente, che appartiene alla stessa gente o famiglia”. Un termine, in realtà, poco inclusivo e accogliente in quanto distingue, appunto, fra chi appartiene a ‘questa gente’ e chi no. Per fortuna le parole fanno galoppate semantiche anche molto curve nei secoli e oggi lo intendiamo come un atteggiamento articolato di gesti e di intenzione. Il gentile si muove in modo morbido, attento, ma pensa anche in questa forma.  

Una seconda ragione ce la consegna la scienza della mente, fra psicologia e neuroscienze. La pratica gentile ricorsiva sembra essere correlata alla produzione di dopamina, la quale pervade il nostro cervello producendo maggiore calma, riflessività, apertura. E il verso di questa produzione biochimica sembra partire proprio dal gesto: è la pratica di gentilezza che produce dopamina, non il contrario. La serotonina, anch’essa prodotta in questi casi, regola ulteriormente l’umore. Inoltre, il movimento fisico gentile sembra essere riconosciuto dal cervello dell’altro – più propriamente dall’insula – come non minaccioso, predisponendo a reazioni maggiormente concilianti e accoglienti. D’altra parte, il predecessore mistico delle psicologie moderne, il buddismo, indica la gentilezza come una delle quattro attitudini mentali, o virtù, da coltivare. 

La gentilezza non è educazione: è un’intenzione profonda 

Naturalmente non mancano detrattori a questa ‘filosofia’, i quali ricordano che anche la gentilezza può essere niente di più che una forma di manipolazione dell’altro, praticata con intento meramente affabulatorio. Certo, questa affermazione resta vittima della aporia che vuole combattere, cioè si fonda sull’idea che l’altro sia a tutti gli effetti manipolabile, che non abbia ‘strumenti’ per distinguere fra un atto di vera gentilezza e il tentativo di brandire. Ma anche in questo caso sappiamo, dalla scienza e dal senso comune, che non è così: segnali fisici arrivano continuamente alla decodifica del cervello che non riposa mai nell’esercizio di scorgere minacce esterne.  

L’altra gamma di obiezione si può sintetizzare nell’adagio: preferisci un cardiologo capace e maleducato o uno incapace e gentile, per salvarti la vita? Dichiarazione che già si qualifica. Ma diciamo, in primis, che se fosse così dovremmo restringere il campo ai pochi specialisti che incontreremmo, cui consentire di maltrattarci mentre ci danno qualche altro anno di vita. Ma in realtà la fallacia al cuore della dichiarazione sta nell’ipotesi che il talento e le capacità sarebbero antagoniste alla gentilezza, il che è ridicolo e basta ripercorrere le nostre relazioni per raccogliere montagne di testimonianze contrarie (ho incontrato decine di mediocri altezzosi e villani, voi no?). 

Ma forse l’equivoco riguarda il vero senso della parola “gentilezza”, che ho in qualche modo alimentato anche io fin qui, parlando di “gesto”. Non si tratta di ricercatezza, di morigeratezza fisica e verbale. Questa è per lo più educazione, come direbbero in nostri nonni: esercizio relazionale che dovrebbe essere quasi igienico, ma che si è perso nella postura moderna della cosiddetta informalità (davvero per essere informali si deve rinunciare alla educazione?). La gentilezza è un tratto che ha che fare con un’intenzione profonda, un apriori, un’etica della relazione che sta a fondamento dei movimenti fisici e verbali di cui parlavamo. 

Non si può fare i gentili. Bisogna essere gentili.  La gentilezza è accoglienza dell’altro che ci convoca; è rispondere affermativamente alla sua richiesta di essere contemplato; è danza dei concetti, dei pareri, delle filosofie individuali, che si avvitano, ma mai prevaricano attraverso la forza (come nello judo). La gentilezza è, infine, il nostro auto-limite alla vocazione, sempre più di moda, al bastare a se stessi, all’essere dio del proprio mondo. 

Il leader gentile punta a migliorare la vita delle persone 

Tornando alla leadership, però, la domanda che dobbiamo farci è verso che archetipo stiamo procedendo. La mia obiezione, molto forte, è che si stia cambiando il nome a quell’insieme di pratiche preesistenti che fanno parte della narrativa post moderna su questo tema: il leader gentile, quindi, è quello che ascolta, fa crescere, offre visione, in un misto di coach, maestro, psicologo, che, tuttavia, mantiene al suo fondamento l’idea di relazione asimmetrica e sbilanciata. Tutte cose necessarie certo, ma che non portano a nessuna rivoluzione reale. 

Quindi, la leadership gentile come si sviluppa? Con una costante pratica riflessiva, è la mia tesi, cui il leader deve educarsi. Va recuperata una philía, amicizia fra persone, messa al cuore della propria etica, che rende le azioni del leader morbide, ma di sostanza, accoglienti, senza essere strumentali. Così come si tratta di passare dall’archetipo novecentesco capo-collaboratore a uno più opportuno persona-persona, si deve procedere dalla logica delle competenze verso quella della virtù. 

Quest’ultima è una disciplina molto più proficua, perché non ha come relativo della prestazione l’aver raggiunto un risultato quantitativo, monetizzabile, ma aver migliorato la vita – anche solo nel contesto lavorativo – di qualcuno. Anche quella del leader stesso. Con il portato, come ci ricorda Marco Aurelio, l’imperatore filosofo, che la gentilezza non cerca fama né ricompensa. Riusciamo ad essere leader così? 

leadership, ascolto, accoglienza, leader gentile


Avatar

Alessandro Donadio

Articolo a cura di

Alessandro Donadio è antropologo, umanista, filosofo dell’organizzazione e Professore a Contratto di Cross-Cultural Management Università Tor Vergata. Consulente di cambiamento organizzativo ed esperto di temi del lavoro, è attualmente membro del comitato scientifico dell’Osservatorio del lavoro Cifa-Confsal. Il suo progetto LogosLab è punto di riferimento sul tema dell’intersezione fra tecnologie e persone nei contesti organizzativi. Lecturer nelle più importanti università e business school italiane, oltre che columnist per diverse riviste di management. È autore di HRevolution (2017), Smarting Up! (2018) e #Learning organization (2021).

Management

Per un management maestro per il bene comune

/
Goethe scriveva: “Come merito e fortuna siano concatenati, non viene ...
Lavoro_tempo

Tempo misurato e tempo vissuto

/
Sant’Agostino nelle confessioni ebbe a dire: “Che cosa è dunque ...

Via Cagliero, 23 - 20125 Milano
TEL: 02 91 43 44 00 - FAX: 02 91 43 44 24
EMAIL: redazione.pdm@este.it - P.I. 00729910158

© ESTE Srl - Via Cagliero, 23 - 20125 Milano