Il compito dell’HR è prendersi cura delle persone
Di recente ho avuto un colloquio con una giovane studentessa che frequenta un corso di specializzazione in Digital Marketing, che mi ha confidato la sua indecisione in rapporto a una recente scelta. Per anni aveva studiato discipline orientate alle Risorse Umane, poi, inaspettatamente, ha voluto cambiare rotta, e dedicarsi al Marketing. Mi ha messo a parte di un dubbio sull’opportunità di questa sua opzione, raccontandomi del sentimento d’insoddisfazione che ogni tanto si fa presente nelle riflessioni riguardo al suo futuro professionale: aver imboccato questa nuova strada –che comunque le piace– le fa temere di lasciare inascoltato un suo desiderio profondo di operare nell’ambito della psicologia e delle relazioni negli ambienti di lavoro. Non ho provato a convincerla del fatto che anche nell’attuale indirizzo di studi potrebbe trasformare in realtà la sua aspirazione, ho cercato di fare del mio meglio, invece, per aiutarla a guardare dentro di sé in modo più chiaro.
Tuttavia, inevitabilmente, come sempre accade in questo genere di esercizi, ho dovuto fare i conti con il mio desiderio e con le mie motivazioni personali. Sono tornato con la memoria ai primi tempi dopo l’Università e ricordo bene di aver deciso, non per caso, di approfondire la gestione del personale e i comportamenti organizzativi. Era esattamente quello che volevo fare. Ricordo anche il mio disappunto quando un compagno di corso, appena laureato in giurisprudenza, mi disse: “Voi che studiate Filosofia… Proprio non vi capisco! Fate gli insegnanti, dico io! Perché volete occuparvi di personale e invadere il territorio dei laureati in economia e in legge?”. Non replicai, perché non avevo le idee chiare e non sapevo bene come argomentare. Mi sentivo come quella volta, da ragazzo, nella quale fui sorpreso a giocare a pallone in un terreno incolto vicino a casa mia e fui duramente sgridato da un anziano signore, perché quello spazio era di sua proprietà.
Con il tempo e con l’esperienza, credo che lo scambio di opinioni con il collega mi abbia permesso di capire qualcosa di importante. Tuttora non ritengo che la funzione organizzativa HR debba essere riservata a chi ha approfondito una determinata disciplina –pur riconoscendo che i ruoli specialistici richiedono una formazione solida–. Però, penso di aver appreso che la mia inclinazione di allora non era sostenuta da un’effettiva contezza del nucleo centrale di quell’ufficio, che non è solo ‘abilità’, ma ‘volontà’, ‘intenzione’ di prendersi cura delle persone. Questa mi sembra, oggi, la differenza che fa la differenza. Anzi, mi sento di poterlo affermare soprattutto oggi, periodo storico nel quale l’essere umano si risveglia bruscamente da una sorta di sogno sintetico, dove ha confuso le proprie certezze adamantine per verità.
Impiegare la competenza emotiva nel supporto ai colleghi
La dimensione quasi onirica di considerarsi inattaccabili e immortali si frange sugli scogli di una realtà che sta mostrando un volto severo, fatta di virus che ci possono colpire improvvisamente e molto violentemente, di una guerra terribile tra due schieramenti internazionali opposti, di problemi legati all’energia, di dilemmi sull’utilizzo delle risorse, di ineludibili problematiche connesse al rispetto dell’ambiente, di una congiuntura economica estremamente difficile, del collasso della Silicon Valley Bank, che minaccia un ulteriore carico d’incertezza. L’uomo si ridesta, dunque, e scopre d’aver paura. Da questo nasce il compito autentico dell’HR, ossia un insieme di attività che prende il nome da un’etichetta in cui non può, se non in senso traslato, riconoscere se stessa: ‘Risorse Umane’. È il ruolo di chi ha strappato il velo di Maya dei nostri ‘modelli di business’ e sa che ogni Risorsa Umana percepisce e pensa se stessa come ‘persona’, ovvero come fine e non come mezzo. Ponendo a fondamento della propria professione questa presa di coscienza, si può fondare un’antropologia coerente della persona al lavoro, non caratterizzata da una forma che definirei –rubando le parole a un altro campo disciplinare– un ‘disturbo dissociativo dell’identità’, che guida le scelte collettive in base a un’immagine di ‘umani’ artefatta, costruita su vari ‘come se’ –per esempio, come se fossero eterni, come se fossero risorse, come se fossero entità che consumano–, mentre le scelte individuali sono dirette, se va bene, all’autorealizzazione. Prendersi cura delle persone significa quindi saper comporre questa dicotomia prima di tutto in se stessi, portando attenzione a sé, ai propri talenti, ma anche alle proprie paure, fragilità, insicurezze e ansie, per poi impiegare questa competenza emotiva ed empatia, nel supporto ai colleghi che stanno affrontando le criticità dell’odierno scenario lavorativo, attraverso una visione integrata della persona, diffondendo un modo di essere in grado di trasmettere prospettiva di senso, fiducia e consapevolezza.