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Pnrr, l’occasione per l’Italia che si perde nella polemica (politica)

Cerchiamo di fare chiarezza. La presentazione in Parlamento da parte di Raffaele Fitto, Ministro per gli Affari Europei, il Sud, le Politiche di coesione e il Pnrr, della proposta di revisione al Piano nazionale di ripresa e resilienza e a RepowerEu – con la riprogrammazione su altre fonti finanziarie di interventi per 15,9 miliardi di euro – ha suscitato vivaci polemiche fra le forze politiche di maggioranza e quelle di opposizione, forti preoccupazioni in amministratori locali, richieste di chiarimenti di governatori regionali e comprensibili attenzioni del mondo imprenditoriale.

A riguardo, a sommesso avviso di chi scrive, è necessario però chiarire alcuni aspetti fondamentali dell’intera vicenda. Per prima cosa il testo presentato dal Ministro è – come si evidenzia dal suo stesso titolo – una proposta che come tale dovrà essere attentamente vagliata (con un approfondito esame istruttorio in ordine all’ammissibilità delle singole proposte) dai servizi tecnici della Commissione europea, sempre in un serrato confronto con le autorità governative italiane, per poi passare, una volta concordata fra le parti, all’esame del Consiglio per la decisione di esecuzione. Pertanto al momento si è in presenza di una proposta, certo ben motivata, tecnicamente argomentata, ed elaborata sulla base di linee guida della Commissione europea pubblicate il 3 marzo 2023, relative sia agli orientamenti per l’introduzione del capitolo REpowerEU, sia alle modifiche dei singoli piani nazionali.

Chi abbia letto, con la doverosa attenzione, il corposo testo della proposta avrà avuto modo poi di osservare che le competenti strutture della Presidenza del Consiglio dei Ministri – e il Ministro Fitto che ne ha la relativa delega, supportato dal suo staff – in raccordo con quelle del Ministero dell’Economia e delle Finanze “hanno audito tutte le singole amministrazioni titolari di interventi”, è stato scritto testualmente. Tale confronto ha messo in luce – è stato scritto ancora nel documento – la necessità “di ulteriori approfondimenti” che sono stati condotti sia a livello politico sia a livello tecnico.

Da quanto appena riportato, si evince con chiarezza che i contenuti della proposta di revisione devono essere ascritti in primo luogo alle tecnostrutture (e ai Ministri) alla guida delle “singole amministrazioni titolari di interventi” e non a decisioni arbitrarie del Ministro titolare della delega per il Pnrr, che pure ha autorevolmente (e pazientemente) coordinato un lungo lavoro collegiale. Pertanto, attribuire alla responsabilità esclusiva di Fitto le proposte di revisione che sono state poi discusse anche in cabina di regia, non parrebbe corretto allo scrivente. Si può dissentire certo su talune scelte, se ne possono anche sollecitare significative modifiche – nel pieno rispetto peraltro di procedure stabilite dalla Commissione europea – ma la polemica politica da chiunque alimentata non dovrebbe mai dimenticare (per correttezza e onestà intellettuale) la ‘realtà effettuale’ del lungo e articolato percorso sinora compiuto da tutti gli organi competenti nella delicata materia del Pnrr.

Il necessario confronto tecnico fra interlocutori competenti

La richiesta di modifiche rispetto a quelle apportate e proposte – lo si ripete – dal Governo dovrebbe tener conto tuttavia della complessità tecnica che ha motivato le modifiche apportate dall’Esecutivo. Si vuole evidenziare cioè la necessità che chi in Parlamento e nel Paese si opponga alla revisione apportata dal Governo dovrebbe farlo mettendo in campo soprattutto argomentazioni e competenze tecnicamente qualificate. Gli ex Ministri del Partito democratico e del Movimento 5 Stelle, all’Esecutivo sino al giuramento della Meloni, conoscono perfettamente i contenuti della prima versione del Pnrr, mentre i due partiti dispongono di autorevoli consulenti – oltre che di prolungate esperienze di Governo a livello centrale e periferico – che così consentirebbero loro di argomentare persuasivamente richieste di modiche.

Ma sarebbe utile, a nostro parere, che – se pure fossero ancora possibili altre audizioni in Parlamento o almeno nelle Commissioni competenti dei suoi due rami – si chieda l’audizione dei dirigenti apicali delle amministrazioni titolari di interventi per comprendere bene dalla loro viva voce, perché e in base a quali criteri oggettivi abbiano proposto, tramite i loro Ministri, determinate modifiche dalle quali poi Fitto, valutandole attentamente, non ha potuto prescindere. Insomma, sarebbe preferibile, e su questo credo che si possa essere tutti d’accordo, un serrato confronto tecnico fra interlocutori competenti piuttosto che una polemica tutta politica che peraltro non sembra incontrare particolare attenzione negli staff di valutazione della Commissione europea.

Il Governo e Fitto hanno assicurato che nessun investimento è definanziato – soprattutto quelli che hanno già prodotto obbligazioni giuridicamente vincolanti – ma solo trasferito su altre fonti finanziarie (per esempio dal Piano nazionale complementare al Fondo di sviluppo e coesione), che non hanno lo stringente vincolo di impiego delle loro risorse entro giugno del 2026. E agli amministratori locali che tramite Anci e Upi hanno chiesto con (comprensibile) insistenza di conoscere sin da ora quali siano con esattezza queste fonti finanziarie alternative, si è risposto a livello governativo che, essendo ancora in presenza di una proposta di revisione, sarebbe prematuro indicare subito quelle stesse fonti alternative.

Queste fonti sarebbero sicuramente reperite – e sarebbe politicamente controproducente per chiunque non farlo, com’è facilmente intuibile – con un accurato lavoro di analisi delle stesse fonti, auspicabile (sperabilmente) anche grazie a proposte formulabili dalle stesse forze di opposizione, i cui esponenti, proprio perché parte dei Governi Conte II e Draghi, conoscono i vari capitoli di spesa da cui poter attingere le risorse necessarie.

Il Pnrr deve generare Pil per ripagare il debito

Ma qualche altra considerazione a questo punto si impone a proposito dell’iter di approvazione o meno delle modifiche apportate al Pnrr. È bene sottolineare ancora una volta che il Piano per l’Italia prevede 132 investimenti e 63 riforme cui corrispondono 191,5 miliardi di euro finanziati dalla Ue attraverso il Recovery and resilience facility, suddivisi fra 68,9 miliardi di euro di sovvenzioni e 122,6 miliardi di euro di prestiti, tutti da impiegare nel periodo 2021-26 attraverso l’attuazione del Piano. Utile ripetere che i 122,6 miliardi sono da restituire e questo ci impone – volenti o nolenti – un impiego delle risorse previste (entro e non oltre il 31 dicembre del 2026), in investimenti realmente capaci di generare un tasso di crescita del Prodotto interno lordo che, oltre a rafforzare l’economia del Paese, deve consentirci di restituire a Bruxelles i soldi prestati con le modalità, le tempistiche e ai tassi stabiliti.

Allora, siamo tutti pienamente consapevoli di quanto abbiamo appena evidenziato, o ancora una volta come italiani rischiamo di dimostrarci agli occhi dell’Ue non all’altezza di una sfida che ha mobilitato risorse comunitarie, buona parte delle quali a loro volta attinte a prestito dal mercato internazionale dei capitali? E questa preoccupazione, se da un lato è alla base delle decisioni del Governo, dall’altro non può non interessare l’intero mondo politico ed economico italiano, senza eccezione alcuna, che dovrebbe mettersi ‘alla stanga’ nell’attuazione del Piano, come ha detto il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Un fallimento del Pnrr infatti rischierebbe di travolgere l’intero Paese: maggioranza, opposizione e tutti i portatori di interessi. Nessuno escluso.

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Federico Pirro

Articolo a cura di

Federico Pirro è Docente di Storia dell’Industria nell’Università di Bari e ha insegnato anche nell’ateneo di Lecce Economia del territorio e Giornalismo economico. È autore, fra gli altri, di Grande Industria e Mezzogiorno (1996-2007), con prefazione di Luca Cordero di Montezemolo, (Bari, Cacucci 2008) – cui sono stati conferiti nel 2009 il Premio Sele d’Oro Mezzogiorno e il Premio Basilicata per la saggistica – e di saggi su riviste e in volumi collettanei, fra i quali L’economia reale nel Mezzogiorno, a cura di Alberto Quadrio Curzio e Marco Fortis (Bologna, Il Mulino 2014). Nel 2016 gli è stato conferito dal Centro Nuove proposte di Martina Franca il Premio Menichella per i suoi studi sull’industria nel Sud. Dal 1977 al 1995 è stato amministratore anche con cariche di Presidente e Vice Presidente di imprese pubbliche e private – fra cui Insud, Finvaltur, Valtur Sviluppo, Agis-Gruppo ABB, Breda Fucine Meridionali – e dal 1995 al 2000 e dal 2007 al 2016 consulente di Presidenza della Regione Puglia sulle problematiche dello sviluppo. Dal settembre del 2015 al giugno del 2018, su nomina del Ministro Graziano Delrio, è stato componente ‘esperto’ della Nuova Struttura tecnica di missione del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. Dal 2012 al 2016 è stato consigliere della Svimez, e dal 2015 siede nel Comitato scientifico della SRM-Gruppo IntesaSanPaolo. Dal 2000 al 2015 è stato editorialista del Corriere del Mezzogiorno/Corriere della Sera e con del suo settimanale Mezzogiornoeconomia. Oggi collabora con La Gazzetta del Mezzogiorno, i mensili Economy e Investire, con testate online e ha curato per la Rai e il Gruppo televisivo pugliese Telenorba trasmissioni sull’industria in Puglia.

Federico Pirro


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