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Digitalizzazione, quante occasioni perse dall’Italia

Nel periodo dal 2013 al 2019, l’economia italiana è stata tenuta in vita dallo zoccolo duro della nostra Piccola media impresa (PMI) con i suoi mercati di nicchia e dal commercio dei player internazionali: siamo comunque un interessante mercato per volume e per capacità di acquisto, grazie anche all’elevato risparmio personale. A fronte di uno stop alla continua caduta del nostro Prodotto interno lordo (Pil) reale, abbiamo però accumulato un ulteriore gap relativo rispetto agli altri Paesi: -25% rispetto alla Germania e alla Gran Bretagna; -20% rispetto a Francia e Olanda, -13% rispetto alla Spagna; -20% rispetto alla media europea e ovviamente molto di più rispetto ai Paesi dell’Est Europa. È chiaro che il livello medio dei salari ha seguito anche esso tale trend (ha continuato e non è salito dal 1990).

Ma quale è il treno perso dall’Italia nel periodo 2013-18? È chiaramente quello della digitalizzazione. I processi digitali si sono appropriati delle catene commerciali, dei prodotti ‘servitizzati’ e hanno attivato nuovi servizi. Tutto ciò ha ulteriormente messo nell’angolo il tradizionale business del Manufacturing, su cui l’Italia era storicamente concentrata. Ora i prodotti sono producibili in remoto in Paesi a minor costo e consegnabili velocemente con le nuove catene logistiche digitalizzate. Sono state così depauperate anche le tradizionali catene commerciali fatte di dealer, distributori e negozi per la vendita al dettaglio. Persino la grande distribuzione soffre ora della concorrenza delle aziende di puro ecommerce (non a caso Amazon è diventata una delle società con maggior fatturato e capitalizzazione al mondo).

Purtroppo la maggior parte delle aziende del business dell’ecommerce non è italiana e questo impatta fortemente sul nostro Pil, sia perché esse non consolidano comunque i loro fatturati in Italia sia perché hanno fatto crollare il valore aggiunto delle nostre catene commerciali fisiche (crollo dei loro fatturati e della loro contribuzione al Pil e all’occupazione), con anche la chiusura di numerosi negozi (sfumato anche il loro contributo di Pil e soprattutto di posti di lavoro). Contemporaneamente le nostre aziende non sono state in grado di rimediare parzialmente a tale problema, attivando esse stesse una tipologia di canali di ecommerce non realizzabili da competitor come Amazon.

Le aziende dell’ecommerce possono infatti vendere solo prodotti standard, imponendone anche i prezzi alle aziende produttrici e mettendole così in difficoltà nei canali tradizionali, dove non esistono più i margini di intermediazione commerciale; non sono, però, in grado di vendere prodotti customizzati, su misura. Questi potrebbero invece essere forniti direttamente dalle nostre aziende, attivando logiche commerciali di prosumership, sfruttando direttamente le possibilità offerte dalla digitalizzazione. Ciò significa poter vendere al cliente i propri prodotti attraverso l’offerta del servizio costituito dalla possibilità di auto-personalizzarsi online la merce. Ciò può avvenire grazie all’attivazione di canali diretti digitalizzati, sfruttando anche la tipica capacità delle nostre aziende di fornire prodotti ‘su misura’ e in modo molto flessibile e dinamico. Anche questa è una forma di servitizzazione: è la cosiddetta ‘up stream servitization’.

Il treno (perso) della gestione dei dati

Dal 2018 in poi – complici anche i periodi di lockdown per la pandemia Covid – si sono affermati nuovi modelli di business abilitati dalla digitalizzazione, prevalentemente per l’aumento della competitività dell’ecommerce. La conseguenza è ciò che tutti possiamo ora fisicamente vedere davanti a noi: la disintegrazione delle tradizionali catene logistiche e (drammaticamente) di buona parte dei dealer tradizionali e del retail, cioè dei negozi di vendita al dettaglio. L’impatto negativo sull’occupazione e sul business del commercio di base è ora fortemente preoccupante (con anche conseguenze sul Pil reale nazionale e pro capite).

L’avvento generalizzato del digitale ha, però, anche contemporaneamente permesso di sviluppare un nuovo business, che rischia purtroppo anch’esso di essere ricordato come un ulteriore ‘treno’ perso dalle nostre aziende. Si tratta del business della gestione dei ‘flussi dei dati’. Sino alla decade scorsa, il business dei dati si limitava alla compra-vendita di dati statici (o addirittura storici). Ora un grande e maggiore valore (e volume) l’hanno i cosiddetti ‘data stream’ (flussi di dati): si tratta del commercio e dello sfruttamento commerciale di dati industriali e soprattutto di dati comportamentali personali (Data monetization).

Penso che sia evidente a tutti che attualmente le aziende largamente più capitalizzate al mondo sono le imprese che ‘maneggiano’ nostri dati: i grandi player della digitalizzazione, dei social e delle App; le aziende dell’ecommerce; le organizzazioni di altri settori che vengono in possesso di dati che possono aver valore per altri (Utilities, Mobility, siti di internet, Telefonia, Carte di credito e pagamenti, ecc..). La gestione delle informazioni, in generale, rappresenta, giusto per dare un dato, solo negli Usa più del 50% del Pil.

L’articolo è parte di una riflessione più ampia, suddivisa in diversi ‘capitoli’

Leggi la prima parte “Il mal di Pil dell’Italia”

Leggi la seconda parte “Chi inizia male il Millennio è a metà del Pil”

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Giorgio Merli

Giorgio Merli è autore di numerosi libri e articoli sul management pubblicati in Europa e negli Usa; è consulente di multinazionali e Governi, oltre che docente in diverse università in Italia e all’estero. È stato Country Leader di PWCC e di IBM Business Consulting Services

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