Lunga vita a Taylor
Quando penso a un classico per eccellenza, penso a Frederick Taylor e al suo The principles of scientific management, pubblicato nel 1911. Lo scoprii proprio agli inizi della mia professione, in seguito alle intense frequentazioni delle fabbriche e, soprattutto, degli ingegneri che le animavano. Da allora l’ho ripreso più volte e la ragione sta proprio nella definizione che ne ha dato un suo importante studioso: “Il libro che ha sconvolto un secolo”.
Taylor è una figura complessa e controversa. Nasce nel 1856 a Philadelphia, figlio di una famiglia ricca e colta esponente dell’aristocrazia quacchera, che gli trasmette un’educazione al lavoro e alla disciplina, oltre che una lunga esposizione all’Europa. Ingegnere meccanico, frequentò gli ambienti intellettuali dell’America di fine Ottocento in piena trasformazione economica e sociale, sviluppando i princìpi di quello che sarebbe stato un vero e proprio movimento, lo Scientific management.
Libro manifesto, profondamente ideologico e valoriale, ricalca i volumi americani dell’epoca finalizzati a un’ampia divulgazione, con un linguaggio comprensibile e bassa complessità apparente, ricchi di esempi e casi ‘scientifici’: un volume scritto, all’inizio, per ingegneri e manager in contesti industriali, ma ormai indirizzato a un target di pubblico ben più vasto.
Il sapere scientifico diventa tecnica, che si salda con il capitale per favorire un’esponenziale generazione di valore, per il bene individuale e collettivo o della ‘nazione’, unendo nei “princìpi” il positivismo scientifico con l’idealismo etico. Afferma Taylor: “L’adozione generale dell’ordinamento scientifico raddoppierà rapidamente nel futuro la produttività dell’uomo medio occupato in lavori industriali. Pensate quanto valore abbia ciò per l’intero Paese. Pensate all’aumento tanto delle cose necessarie quanto quelle di lusso che è di giovamento per l’intero Paese, della possibilità di abbreviare l’orario di lavoro, quando ciò è desiderabile, e di aumentare così la possibilità di educazione di cultura e di riposo”.
La scientificità si esprime nel ‘metodo di lavoro’. Ciò che parte dal metodo e arriva al one best way prospetta il vero salto epocale dello ‘studio del lavoro’. In Taylor l’azione organizzativa, come la tecnologia, ha la funzione di ridurre e azzerare l’incertezza. Tutte le variabili devono essere messe rigorosamente sotto controllo per pervenire a un modello razionale, che utilizzi la strategia di un sistema chiuso, non interdipendente, e che agisca secondo logiche causali.
Una lettura cruciale per i manager d’oggi
Leggere (o rileggere) Taylor aiuta anche a far chiarezza (se non giustizia) in merito a un’operazione che la pubblicistica, ma anche la riflessione scientifica hanno perpetuato nel tempo: la continuità e sovrapposizione tra Taylor (e il taylorismo) e Ford (e il fordismo). Taylor fu un intellettuale positivista che proponeva un modello di gestione dell’impresa dove il fattore umano entra in una logica di razionalità, ma soprattutto di utilità sociale. Ford, contadino benestante che diventa industriale per passione della tecnica e delle sue applicazioni, promuove una concezione di impresa che non avrà finalità sociali, ma dovrà garantire la massima efficienza quotidiana delle linee di montaggio per un consumo di massa.
Insomma, il taylorismo sembra morire proprio quando nasce il fordismo. E così si perderà per sempre la conciliazione idealistica tra capitale e lavoro, a cui aspirava Taylor. Anche per questo, in un’epoca storica così diversa come la nostra, ma alla ricerca di nuovi significati del lavoro, può essere interessante riapprezzare quell’idealismo etico che sembrava caduto e soffocato definitivamente dalla catena semovente della fabbrica di Ford, ben espresso con “il lavoro non è una merce”, sancito peraltro dai Princìpi dell’organizzazione internazionale del lavoro nel 1944.
La possibile attualità di Taylor è almeno su tre piani: il primo riguarda il recupero del rapporto tra persona e organizzazione, attraverso i significati del lavoro; il secondo riguarda la rilevanza del progetto organizzativo (e della sua componente innovativa) nell’evoluzione dell’impresa, proprio a partire dalla critica al taylorismo, con le sue ‘fratture’, i suoi costi e la rigidità delle soluzioni proposte. Infine, va considerato il ruolo di Taylor nell’evoluzione del management verso una maggiore preparazione e, in qualche modo, rigore scientifico. In realtà nasce e si rafforza la figura professionale del management intermedio, quale “ingegnere di risorse” e, dunque, responsabile dell’esercizio del coordinamento attraverso programmazione, comunicazione, controllo e integrazione sociale.
Certamente le organizzazioni che devono andare oltre il modello del management scientifico devono fare i conti con un profilo di attese del ruolo dei manager intermedi totalmente fuori da quegli schemi, ma la consapevolezza delle origini e del contesto in cui le sue teorie si sono sviluppate può essere molto preziosa.
Ha un’esperienza di oltre 30 anni nell’ambito delle Risorse Umane. Laureato in Filosofia, è entrato nel Gruppo Barilla
dove per 12 anni ha svolto diversi ruoli nella funzione HR, in particolare in ambito internazionale. Dopo l’esperienza di Direzione delle Risorse Umane del Gruppo Mossi & Ghisolfi è entrato in Campari Group dove, per 17 anni, ha ricoperto il ruolo di Head of Human Resources, supportandone la crescita e la trasformazione in uno tra i primi e più attivi attori globali nel settore delle bevande alcoliche. Da gennaio 2022 guida il progetto di costruzione della Campari University di cui è responsabile.
management, cultura d'impresa, taylorismo