Burnout

Più remoti, più infelici

Una volta estinta la mia generazione non esisterà più nessuno in grado di raccontare com’era la vita prima dei social. Dopo noi Millennial vengono infatti i Nativi digitali, che nella bolla di Internet e delle piattaforme sono sbarcati con il primo vagito. Probabilmente le immagini delle loro mamme stremate dal parto affiancate dai neopapà tutti fieri sono comparse su Facebook o Instagram solo qualche ora dopo che loro stessi hanno visto la luce.

L’Istituto europeo di design ha lanciato un’iniziativa di guerrilla marketing dal titolo Cornici private collocando per le vie di Roma delle cornici che contenevano foto di bambini realizzate con l’Intelligenza Artificiale. Dietro ognuna di queste era scritto “E tu metteresti mai tuo figlio per strada?”. La campagna segnala che oggi il 72% dei genitori posta sui social foto dei propri figli senza nessuna censura. Senza considerare i rischi a cui li espongono a livello non solo di identità digitale, ma anche di reale incolumità: violazione della privacy, furto di identità, impatti sulla reputazione, cyberbullismo, sorveglianza indesiderata, perdita di controllo sulle proprie informazioni. Fino alla pedopornografia.

L’obiettivo dell’iniziativa è quello di sensibilizzare mamme e papà sul tema dello sharenting, la pratica ormai diffusa di ‘mettere in piazza’ – sui social – contenuti relativi ai figli (che non hanno mai chiesto ai genitori di farlo e a cui i genitori non penso abbiano mai chiesto il permesso).

Secondo un’indagine di The Adecco Group, oltre la metà dei recruiter è influenzato negativamente nel processo di selezione mentre controlla il profilo social del candidato. Dieci anni fa succedeva solo per il 12% dei selezionatori. Questo incremento esponenziale ci offre testimonianza della pervasività con cui le piattaforme si sono insinuate nelle nostre esistenze, a tutti i livelli: personale e lavorativo, anche se ormai, secondo i teorici della one life e dell’on-life, pare non abbia più nemmeno senso distinguere i due ambiti.

Il punto su cui dovremmo riflettere, che si tratti di identità digitale di bambini o di adulti, è il livello di tragica inconsapevolezza con cui consegniamo alla rete un’immagine o le parole di un post. Probabilmente almeno un terzo dei contenuti non li condivideremmo se dovessimo farlo de visu, nel mondo reale, che ci si trovi di fronte a un singolo interlocutore o a una folla intera. Anche ora, mi pare assurdo dover specificare che, quando mi riferisco al mondo, io mi stia riferendo a quello ‘reale’. Eppure, per molti la vita virtuale ha ormai raggiunto un livello di ingombro tale da assumere una dignità pari a quella della vita ‘corporea’. Con tanto di impatti concreti sulla salute, mentale e fisica.

Gli impatti sulle nuove generazioni

Le conseguenze sono evidenti soprattutto nei giovani: la prima generazione a cui è stato consegnato un device prima del ‘giusto’ tempo, buttata ‘online’ senza che avesse gli strumenti cognitivi per governare un territorio così vasto e insidioso. Negli Stati Uniti, negli ultimi 10 anni, la percentuale di casi di depressione in età preadolescenziale è incrementata del 50%. I ragazzi registrano un peggioramento della performance scolastica, scarsa capacità di attenzione, disinteresse per le relazioni umane e per la vita sessuale, una diffusa avversione al rischio, a causa della rarefazione delle esperienze dirette, non mediate da tecnologie e schermi.

La causa scatenante di questo disagio crescente risiederebbe nel fatto che i ragazzi attraversano un’età delicata come quella della pubertà con in tasca un device che li distoglie dalla realtà circostante per catapultarli in universi paralleli dove vige la legge della gratificazione momentanea, dello stimolo dopaminergico dei like, da cui deriva una conseguente ansia da interazione e creazione di contenuti. Non è raro che questi ragazzi facciano cose nel mondo reale con l’obiettivo di postarle sui social (e non più il contrario)…

Leggendo questi dati, che costituiscono l’anticipazione del nuovo libro dello psicologo sociale Jonathan Haidt The anxious generation, non ho potuto fare a meno di fare un collegamento con il principale requisito che la Generazione Z pare ricercare oggi negli annunci di lavoro: il full remote. Nella posizione dei sogni la presenza in ufficio (che magari fisicamente nemmeno esiste) non è richiesta. Molto meglio lavorare da casa, per non dover incontrare colleghi che non ti sei scelto e stare in un ambiente tossico per otto ore al giorno.

Ma non è forse anche questo un passo indietro, una chiusura su sé stessi, una tendenza (antiumana) all’evitamento sociale, illusi dal fatto che una connessione e un device ci consentiranno comunque di rimanere in ‘contatto’? Le aziende che preferiscono tagliare sul costo degli uffici si preparino a mettere a budget uno sportello di supporto psicologico per sociopatici! Ma tanto ci penserà il Wellbeing manager…

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Martina Galbiati

Martina Galbiati è Responsabile Marketing della casa editrice ESTE

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