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Più lavoro, meno produttività: il paradosso che non interessa nessuno

Per le celebrazioni per la Festa del Lavoro 2024 sono stati discussi i dati sull’occupazione. Quelli forniti dall’Ufficio Studi della Cgia di Mestre ci dicono che gli occupati sono ora 471mila in più rispetto al 2019 (anno pre-Covid). Senza entrare nel merito dell’articolazione dei dati, val la pena considerare il significato di due considerazioni concatenate riportate nell’analisi della Cgia: “I lavoratori altamente specializzati sono aumentati nell’ultimo anno del 5,8%, ma i livelli retributivi rimangono molto inferiori a quelli degli altri Paesi a causa di un livello di produttività molto basso”.

Potremmo aggiungere altri dati complementari: il Pil reale nazionale non decolla, il Pil pro-capite neanche e il potere d’acquisto continua a calare (circa il 10% in due anni). Con un aumento degli occupati dell’1,8% negli ultimi 12 mesi, il Pil reale è infatti cresciuto solo dello 0,6% (dati Istat a tutto aprile 2024). È ovvio che se si divide tale Pil sul nuovo numero di occupati, ne risulta che il valore prodotto per lavoratore (produttività) è diminuito. Questo fatti non sono una buona notizia per le possibilità di aumento dei salari.

La causa dei bassi salari è stata giustamente individuata anche dalla Cgia nella bassa produttività del nostro lavoro. Come sappiamo, i salari possibili dipendono dal valore prodotto pro-capite, cioè dal Pil pro-capite. Non a caso il nostro salario medio, in proporzione al Pil pro-capite, è in linea con quello degli altri Paesi confrontabili. In particolare, se consideriamo la Germania è, in proporzione, esattamente uguale. Ascoltando quanto sento dire da alcuni politici, sembra quasi che pensino il contrario e cioè che aumentando i salari possa aumentare il Pil pro-capite. C’è una stretta correlazione causa-effetto tra Pil pro-capite e retribuzioni: senza una chiara consapevolezza di ciò, non si può trovare il modo di uscire da questo circolo vizioso. Invece si può constatare che questi due indici sono spesso considerati come indipendenti, anziché legati in logica in logica causa-effetto.

L’illusione della crescita da Superbonus e Pnrr

Pare, però, che oggi comunque tutti concordino sul fatto che è prioritario che la produttività del Paese aumenti (siamo fermi ai livelli del 1970). Peccato che tale necessità di aumento non trovi riscontro nelle priorità di discussione del Governo (e dell’opposizione). Sui giornali e nei talk show, la quasi totalità dello spazio sui temi nazionali è infatti dedicato a scaramucce politiche (oltre, ovviamente, alle guerre in corso). Se si parla di economia, si discute quasi esclusivamente di temi di tenuta finanziaria e fisco. Difficile che si senta discutere di che cosa si potrebbe fare per agire sulla capacità strutturale del Paese di aumentare il Pil.

Il tema è affrontato solo per evidenziare quanto il superbonus abbia o non abbia contribuito ad aumentare il Pil reale degli scorsi due anni o del fatto che il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) potrà, in un qualche modo, aumentarlo nei prossimi anni (senza però saper evidenziare le relazioni causa-effetto e capire quanto di tale aumento potrà essere strutturale, cioè ripetibile). La stessa Commissione europea ha stimato che in Italia, meno del 25% dei finanziamenti Pnrr si trasformerà in aumento del Pil dei due prossimi anni: è la peggiore performance prevista tra i Paesi europei.

Il problema è che se non si aumenta la produttività, finiti tali finanziamenti, potremmo trovarci anche con la certezza del debito relativo. L’aumento della produttività è il fattore fondamentale per l’aumento del Pil pro-capite e anche il fattore più importante per l’aumento dei salari medi. Su questo argomento, è bene ricordare che occorrerebbe comunque che le retribuzioni delle persone con alta scolarità-competenza dovrebbero essere allineate a quelle dei Paesi concorrenti nella richiesta di tali competenze (essendo libero il mercato di tali professionalità).

Non basta agire sull’incremento dell’efficienza

In Italia c’è ancora un limite culturale che ha caratterizzato il Paese dai tempi del miracolo economico: è la convinzione che la produttività si aumenti solamente incrementando l’efficienza, cioè riducendo i costi di produzione. Tale deviazione culturale ha fatto sì che i Governi, gli imprenditori e anche i sindacati, abbiano continuamente richiesto leggi e finanziamenti per l’aumento dell’efficienza. Con tale approccio si è arrivati al fallimento clamoroso, in quanto, nonostante tutti i finanziamenti, tutte le automazioni e le digitalizzazioni effettuate (compresi i miliardi immessi con il programma Industria 4.0), il nostro livello di produttività è ancora uguale a quello di 55 anni fa, mentre in Francia, Germania e Spagna è aumentata mediamente del 60% (e il Pil reale pro capite di almeno il 30%). Ricordando che l’indice di produttività è costituito dal rapporto tra il valore prodotto e il costo per produrlo, è chiaro che per aumentarlo esistono due modalità: la riduzione dei costi di produzione (attraverso l’aumento dell’efficienza produttiva) e/o l’aumento del valore prodotto (cioè del valore fatturabile dall’azienda) a parità di costo.

In situazioni di mercato insaturo (fino agli Anni 80), quando cioè la domanda era superiore all’offerta, aumentando l’efficienza si potevano potenziare i volumi prodotti e riuscire a venderli, perché la domanda era superiore all’offerta. Si aumentava così il fatturato a parità di risorse impiegate. Di fatto l’aumento di efficienza si trasformava, automaticamente, in aumento di produttività – stesse risorse impiegate per maggior valore prodotto – e ciò comportava quindi anche un aumento del Pil pro-capite. I maggiori margini realizzati dall’azienda a parità di risorse umane, consentivano così un proporzionale aumento delle retribuzioni.

In situazione invece di mercato saturo (praticamente lo scenario attuale) esistono due fattori che impediscono di tradurre l’aumento di efficienza in aumento di fatturato: il primo è costituito dal fatto che in generale il mercato non è disposto ad accettare il maggior volume proposto (da cui il grosso ricorso alla cassa integrazione); il secondo fattore è costituito dal fatto che il mercato saturo costringe a una maggior competizione sui prezzi e quindi alla riduzione del valore prodotto (fatturato) a parità di volume possibile. Il fatto che la competitività oggi non sia più determinata dal costo del lavoro è chiaramente dimostrato dal fatto che Francia e Germania, con costi superiori del 30% rispetto a quelli italiani, sono riuscite ad aumentare il loro Pil reale del 30% in più rispetto all’Italia (che è rimasto ai livelli del 2005).

Produrre in Italia non fa (più) la differenza

Il problema è anche che la situazione attuale (con bassa produttività e bassi salari) di fatto non è più sostenibile e la frana del nostro sistema produttivo è sotto gli occhi di tutti. Senza il contributo dei miliardi del superbonus e di quelli già immessi dal Pnrr, il nostro aumento di Pil reale risulterebbe probabilmente addirittura negativo per oltre il 5%. Il perché di ciò è ben noto (o almeno dovrebbe): il nostro sistema economico si ostina, in buona parte, a produrre prodotti e componenti che ora possono essere prodotti a minor costo in Paesi con costo orario del lavoro addirittura di un terzo rispetto al nostro (per esempio accade in Polonia).

Come si può pensare, in questa situazione, di poter aumentare la produttività aumentando i prezzi di tali prodotti e componenti o di poter ridurre i loro costi di produzione? Non sono certo l’automazione e la digitalizzazione della produzione a poter fare la differenza, in quanto queste possono essere implementate in Italia come in Polonia a parità di costo (anzi, da noi con costi probabilmente maggiori). Dovremmo quindi velocemente abbandonare tale tipo di produzioni – dove cioè si compete con i minori costi – per spostarci su prodotti-servizi a maggior valore. Occorre cioè fare come Francia e Germania, che negli scorsi 30 anni hanno aumentato, via via nel tempo, il valore dei prodotti-servizi, mentre noi continuiamo a fare le stesse cose che ora possono produrre i Paesi emergenti e dell’Europa dell’Est.

Tutto ciò vale anche – si potrebbe dire “specialmente” – per il cosiddetto Made in Italy, citato sempre come la nostra leva di salvezza. A tal riguardo lasciano sconcertati certe affermazioni: per esempio, nella Moda, nonostante la maggior parte dei brand sia ora in mano ad aziende straniere, si dice che “quello che conta è che la produzione rimanga in Italia”. Ma siamo così poco intelligenti da non capire che il costo della produzione rappresenta circa il 10% del prezzo di vendita di tali prodotti e che quindi il 90% di valore aggiunto va nelle casse delle holding straniere? E che i salari medi di chi produce tali prodotti sono probabilmente inferiori alla retribuzione media mensile italiana?

I rischi di una strategia comune europea

Oramai tutti (o quasi) sono consapevoli che abbiamo perso un trentennio di necessari cambiamenti e che stiamo diventando sempre più poveri. Alcuni magari concordano anche sulle cause di ciò; purtroppo però quasi nessuno parla dei possibili rimedi. Ciò è dovuto anche al fatto che non sanno proprio che cosa proporre. Si riscontra anche che molti non hanno neanche le competenze per discuterne. Le uniche proposte che si sentono ventilare riguardano il salario minimo, la patrimoniale, la tassa di successione, ecc.. Cose probabilmente anche giuste, ma che non avranno alcun impatto sull’aumento del Pil pro-capite e sul salario medio. Permetterebbero solo interventi di sussistenza (magari anche urgenti), ma non cambierebbero lo scenario analizzato.

Il problema maggiore, infatti, è come riuscire ad attivare un aumento del valore dei nostri prodotti e servizi per aumentare il Pil pro-capite. Il fatto che non esistano proposte a riguardo e che non si riesca ad attivare un tavolo serio di discussione su ciò, è veramente frustrante. L’unica cosa che riusciamo a fare è affidarci ai suggerimenti delle strategie europee che, purtroppo, saranno per l’Italia penalizzanti relativamente agli altri Paesi. Non riusciranno certamente a farci recuperare il gap rispetto ai competitor, visto che la strategia è la medesima. E non saranno comunque sufficienti per farci invertire la tendenza negativa.

Anzi, tali strategie potrebbero essere addirittura fuorvianti per l’Italia: non a caso la Francia e gli altri Paesi hanno anche strategie proprie (che si sommano a quella europea oppure si sostituiscono). Il nostro Paese, invece, non ne ha. I tentativi – la riflessione di questo articolo ne è un esempio – di proposte a riguardo cadono regolarmente nel vuoto. Forse manca l’autorevolezza necessaria per essere ascoltati, ma il vero problema resta che la questione di come aumentare il Pil pro-capite degli italiani è un tema che non interessa nessuno.

servitizzazione, produttività, Pil Italia


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Giorgio Merli

Giorgio Merli è autore di numerosi libri e articoli sul management pubblicati in Europa e negli Usa; è consulente di multinazionali e Governi, oltre che docente in diverse università in Italia e all’estero. È stato Country Leader di PWCC e di IBM Business Consulting Services

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