Lavorare tutta la vita?
Ho compiuto 50 anni nel 2013, l’anno dopo la riforma delle pensioni. Una mattina, guardandomi allo specchio, ho avuto un breve attacco di panico. Quando ho iniziato a lavorare, nel 1990, i cinquantenni avevano la pensione a portata di mano. Ora si parla di 70 anni… Il paradosso di Zenone che si avvera, Achille (il lavoratore) che corre, ma non raggiunge mai la tartaruga (la pensione).
Elaborato rapidamente il lutto e scartata l’idea del chiringuito alle Baleari, ho cominciato a studiare delle tecniche di sopravvivenza, da applicare sia a livello personale sia aziendale. Come HR, ho la missione di preservare e salvaguardare la salute nel tempo dei collaboratori e, per indole, sono orientato a risolvere i problemi.
In azienda, per sopravvivere, ho svolto innanzitutto un’approfondita analisi demografica aziendale, da cui sono emersi dati preoccupanti. Ho preso coscienza di un’età media aziendale alta, sui 55 anni, con una percentuale molto importante di over 55 (45%), sia tra i colletti bianchi (preoccupante) sia tra i colletti blu (molto preoccupante).
Subito dopo mi sono messo a studiare. Ho scoperto che, in Ue, il tema è già da tempo oggetto di studio e di buone prassi finalizzate alla tutela della salute dei lavoratori più anziani. Il mio vocabolario si è arricchito di parole come: Work ability index, politiche di Active ageing, biodemografia, tasso di morbilità, epigenetica, neuroscienza, ossidazione, radicali liberi, postura, prevenzione primaria e secondaria, valutazione dei rischi age-oriented, strategie di compensazione. Poi ho definito il team di progetto: medici del lavoro e addetti alla formazione, cercando di ottenere la sponsorizzazione del vertice aziendale, che nel 2013 non fu facile.
Nel 2014 siamo partiti a razzo con un solido progetto multidisciplinare di Active ageing. Abbiamo modificato la periodicità del protocollo sanitario (il nostro check up) per gli over 55 e il Documento di valutazione rischi (Dvr), includendo il rischio età. Abbiamo attivato corsi di prevenzione primaria sull’alimentazione corretta, sulla prevenzione delle malattie dell’invecchiamento, sull’attività fisica e sulla postura, sulla qualità delle relazioni e sulla neuroplasticità. Il tutto condito da una costante somministrazione di questionari sugli stili di vita (self assessment) per poter misurare lo stato di salute della nostra azienda.
Pandemia permettendo, il nostro progetto Active ageing è diventato una magnifica routine. Il ritorno da parte dei collaboratori è eccezionale, sia in termini di gradimento sia di messa in pratica delle ‘tecniche di sopravvivenza’. Non basta e faremo di più in altri campi: esoscheletro, supporto psicologico, ampliamento del check up, ergonomia degli ambienti e attrezzature di lavoro. Siamo stati copiati, fatto che ci riempie di gioia e orgoglio, sapendo della bontà delle nostre iniziative. A livello di sistema, in questo momento si parla tanto di riduzione dell’orario di lavoro, con o senza modifica retributiva, per rendere più felici e produttivi i collaboratori, dimenticando il tema salariale.
Analizzare il contesto demografico (per davvero)
Mi piacerebbe, invece, vista la gravità della situazione demografica e dell’invecchiamento della popolazione, che venisse aperto un tavolo di confronto sul tema dell’orario di lavoro generazionale. In sintesi, domandarsi se è ‘normale’ pensare di lavorare quasi tutta la vita, almeno quella in cui si è in salute, con il medesimo orario di lavoro. È noto che la forza e l’energia fisica, psicologica e mentale si riducono con il passare degli anni e che dopo i 50 si diventi più vulnerabili. Mi piacerebbe, quindi, sentir discutere di staffette e di percorsi di carriera generazionali, non di esodi e prepensionamenti di massa a spese delle casse pubbliche, o di demansionamenti e licenziamenti per sopravvenuta inidoneità al lavoro. Mi piacerebbe che, a livello di legislazione nazionale o regionale, fossero adottate iniziative forti per favorire i ricambi generazionali e assistere a rinnovi dei contratti collettivi più focalizzati sul tema dell’invecchiamento attivo, con normative dedicate alla tutela del personale più anziano (lavoro notturno, mansioni gravose, turnistiche, banca delle ore generazionale). Mi piacerebbe che nessuno si stupisse dell’esplosione delle malattie professionali (un tempo erano definite patologie dell’invecchiamento).
L’aspettativa di vita si allunga, bene, ma quanti anni in più vivremo in buona salute e senza acciacchi? Lavorerei anche fino a 70 anni, ma, come ha proposto Carlos Slim, con decalage progressivo dai 50 in poi, per iniziare una soft exit e avere più tempo per lo svago, la cultura, viaggiare e tenersi in forma. Il Santo Padre ha detto: “È una società stolta e miope quella che costringe gli anziani a lavorare troppo a lungo e obbliga un’intera generazione di giovani a non lavorare quando dovrebbero farlo per loro e per tutti”. E basta con i giochetti di parole: definire “tardo adulto” chi compreso fra i 55 e i 64 anni, oppure “giovane anziano” (un ossimoro) chi è fra i 65 e 75 fa un po’ sorridere. Si fanno riclassificazioni statistiche solo per spostare sempre più in avanti il momento del ritiro dal lavoro.