Scenari

Le imprese alla sfida della nuova globalizzazione

David Ricardo, celebre economista ma anche imprenditore di grande successo, nel 1817 enunciò e dimostrò la Teoria del vantaggio comparato, a sostegno dell’utilità del commercio internazionale. In questo ambito, era già evidente che due Paesi che si scambiano prodotti, sono reciprocamente in situazioni di particolare vantaggio per condizioni ambientali, climatiche o strutturali.

Esemplificando: se l’Italia esporta ciliege in Norvegia, importando in cambio salmoni, entrambi i Paesi si avvantaggiano, perché la coltivazione di ciliege in Norvegia e l’allevamento di salmoni in Italia sarebbero sicuramente molto poco efficienti; l’autarchia risulterebbe più costosa, ottenendo minori quantità di prodotto a parità di risorse utilizzate in entrambi i Paesi. Ricardo però va oltre, dimostrando con accurate e analitiche quantificazioni che lo scambio converrebbe, anche se, in via ipotetica, l’Italia fosse più efficiente della Norvegia anche nell’allevamento dei salmoni. Ciò che rileva, infatti, non sono tanto le produttività assolute, ma quelle relative: in condizioni di pieno impiego delle risorse, a quanti chilogrammi di ciliege bisogna rinunciare per produrre un chilogrammo di salmone? Se ogni Paese si specializza nei prodotti nei quali è ‘relativamente’ (e non necessariamente ‘in assoluto’) più efficiente, lo scambio continua a convenire per entrambi.

Sono evidenti le semplificazioni (a volte poco realistiche) alla base della teoria, in particolare la piena fungibilità delle risorse produttive, con coltivatori di ciliege che possono essere riconvertiti in allevatori di salmone (e viceversa) senza problemi di competenze, disponibilità, ecc. Ciononostante, la teoria conserva la sua sostanziale validità ed è alla base dell’enorme sviluppo che il commercio internazionale ha ottenuto nei due secoli seguenti, anche grazie alle rivoluzioni industriali e ai progressi tecnologici nei trasporti.

Guerre e dazi

Secondo la World Bank, solo nei 40 anni dal 1970 al 2010 il rapporto tra esportazioni (e quindi importazioni) e Pil mondiale è più che raddoppiato, passando da circa il 13% a più del 30%. Dopo il 2010, però, la crescita si è arrestata e il rapporto ha cominciato a oscillare tra il 25% e il 30%. Quali sono i motivi?

Certamente un ritorno del protezionismo, cioè della protezione dei prodotti nazionali mediante dazi sulle importazioni e/o sussidi alla produzione, ha rivestito, e riveste tuttora, un ruolo fondamentale. Un caso eclatante: i fondi della Pac (Politica agricola comune) assorbono da soli circa il 33% dell’intero bilancio dell’Unione europea, anche se gli occupati del settore agricolo sono solo il 4,2% del totale; e anche gli Stati Uniti supportano generosamente i loro coltivatori e allevatori. Conseguentemente i Paesi emergenti, soprattutto in Africa, ne subiscono un danno – in termini di concorrenza sleale alle loro esportazioni di prodotti agricoli e zootecnici – probabilmente superiore ai pur ingenti aiuti finanziari provenienti dai Paesi industrializzati. È giusto continuare su questa strada?

Al di là delle evidenti considerazioni di natura etica (inevitabilmente soggettive) è evidente che ridurre gli ostacoli alle importazioni di prodotti del sud del mondo comporterebbe, da un canto, sensibili e generalizzati vantaggi per i consumatori (in termini di prezzi più bassi), dall’altro, gravi ripercussioni sui bilanci e sull’occupazione delle imprese agricole europee e statunitensi. Queste, infatti, potrebbero essere controbilanciate solo da politiche industriali in grado di riconvertire i fattori produttivi in eccesso (forza lavoro, ma anche suoli e capitali) ad altre attività nelle quali possono essere più produttivi, in termini assoluti, o almeno relativi, come insegna Ricardo. Strada questa non facile, anzi irta di difficoltà, e tuttavia irrinunciabile, che sembra invece contraddetta dalla debole e scoordinata reazione con cui l’Unione europea, e ancor più i singoli Paesi membri, hanno risposto alla recente ‘rivolta dei trattori’. In ambito più prettamente industriale, e in particolare manifatturiero, le tensioni geopolitiche si sommano alle pulsioni protezionistiche: il Wto (World trade organization), che in passato ha contribuito molto positivamente allo sviluppo dei commerci internazionali, si vede sempre più spesso ostacolato da veti, in particolare da parte degli Stati Uniti, che ne marginalizzano in termini crescenti il ruolo (analogamente a quanto purtroppo avviene per l’Onu a livello politico).

E naturalmente la guerra Russia-Ucraina ha complicato ulteriormente il quadro dei commerci internazionali. Le stesse sanzioni (giustamente) imposte alla Russia sembrano al momento, per una forse prevedibile eterogenesi dei fini, danneggiare più i Paesi sanzionatori che quello sanzionato. I commerci tra Russia e Paesi occidentali si sono ridotti drasticamente, ma quelli con la Cina sono più che raddoppiati, addirittura decuplicati con l’India. Conseguenze: per il 2024 il Fondo monetario internazionale prevede che il Pil dell’India cresca del 6,8%, quello della Cina del 4,6% e della Russia del 3,2%. Valori questi tutti di gran lunga superiori a quelli stimati per gli Usa (2,7%) e per i Paesi europei (per l’Italia 0,7%).

Remare contro la globalizzazione svantaggia tutti

Ancora più pesante è l’impatto che le tensioni geopolitiche stanno avendo sui flussi di capitali che, configurandosi come fonti di investimenti produttivi transfrontalieri, costituiscono elementi di progressiva globalizzazione dell’economia: se nel 2007 (sempre secondo il Fondo monetario internazionale) essi valevano il 10% del Pil mondiale, nel 2023 si erano ridotti a meno del 3%. In questo contesto, per esempio, come affrontare il problema dell’esportazione di auto elettriche dalla Cina?

Sicuramente i rapporti commerciali con questo grande Paese non sono facili, ma la guerra commerciale, a colpi di dazi, non è la soluzione migliore; bisogna piuttosto restituire al Wto il ruolo di ‘stanza di compensazione’ tra le varie, legittime, istanze nazionali, prendendo in considerazione le diverse possibilità di collaborazione che la globalizzazione può offrire: come la costituzione di joint venture per la realizzazione congiunta di autovetture (i recenti accordi tra Stellantis e Leapmotor potrebbero essere un primo passo in quella direzione), ma anche individuazione di ambiti di ‘vantaggio comparato’ (come li chiamerebbe Ricardo), in cui esportazioni verso la Cina di prodotti europei e statunitensi risultino di reciproco interesse.

Analogo approccio bisognerebbe avere con l’India, il cui impatto sull’economia mondiale continua a crescere, e in prospettiva anche con l’Africa, nella consapevolezza che il protezionismo può portare qualche voto in più alle elezioni nazionali, ma alla lunga danneggia tutti i Paesi. Se l’industria manifatturiera italiana, come quella agroalimentare, continua ad avere successo sui mercati internazionali, non è grazie a dazi sulle importazioni, ma per i notevoli vantaggi comparati che le nostre imprese (soprattutto quelle medie e medio-grandi) sanno sviluppare in termini di competenze specialistiche e innovazioni continue: una globalizzazione ben governata avvantaggia tutti.

globalizzazione, Macroeconomia, Scenari

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