Emoji_comunicazione_azienda

Comunicare (in azienda) senza capirsi

Le emoji: forse lo strumento di comunicazione più universalmente riconosciuto e univocamente interpretato dell’era moderna. E se vi dicessi che no, non è così, vi stupirei? Perspectus Global, un’agenzia indipendente di ricerca internazionale, ha coinvolto un campione di 2mila giovani tra i 16 e i 29 anni in uno studio che ha messo in evidenza come l’uso di una semplice emoji – in questo caso si trattava del ‘pollice alto’ – identifichi un atteggiamento passivo-aggressivo in chi la usa; spesso, infatti, il pollice alto è usato dalla Generazione Z, al termine di una frase, per concludere con decisione marcata una discussione. Senza dubbio un’interpretazione lontana, e parecchio, da quella che, persone con qualche anno in più, ne hanno dato e continuano a darne.

Il focus non vuole essere la emoji nello specifico, quanto piuttosto il farne un pretesto coerente per riflettere su una tematica estremamente attuale e dibattuta (lo spero vivamente) nelle aziende: l’allineamento tra le persone in termini di linguaggio e atteggiamento. La mia esperienza di imprenditore, prima, e di facilitatore e formatore oggi mi offre quotidianamente la possibilità di osservare, ascoltare e vedere quanto endemico e ampio sia il disallineamento tra le persone.

Sia chiaro, non parlo assolutamente di distanze date da competenze ed esperienza professionale, quanto piuttosto dall’inconsapevole uso del proprio linguaggio, sia esso verbale, paraverbale, non verbale o scritto. La comunanza di linguaggio e la mutua comprensione sono aspetti della comunicazione umana dati, nella maggior parte delle occasioni, come scontati e automaticamente garantiti dal solo fatto che si parli la stessa lingua; così non è, mai.

Assicurarsi che il codice sia trasparente e comprensibile

Già nel lontano 1949, una coppia di matematici statunitensi, Claude Shannon e Warren Weaver, elaborarono un modello (il modello Shannon e Weaver) che descrive, in modo strutturato e completo, il percorso che un’informazione, di qualsiasi tipo essa sia, compie tra chi la trasmette e chi la riceve. All’interno di questo modello sono, a mio modo di pensare, tre le variabili che oggi devono, imprescindibilmente, essere tenute in considerazione per costruire un livello adeguato di comprensione e trasparenza nel processo di relazione tra persone: la codifica-decodifica, il canale comunicativo utilizzato e il rumore.

Ognuno di noi possiede inconsciamente un ‘codice’ personale che applica alle informazioni che desidera trasmettere prima che queste siano avviate al destinatario, attraverso uno specifico canale; lo stesso accade a chi riceve il segnale, a cui applica il proprio ‘codice’, attraverso cui decodificherà il messaggio che finalmente verrà ricevuto. Si tratta di due codici, potenzialmente, molto diversi tra loro, in grado di trasformare la natura stessa dell’informazione originaria in qualcosa di molto differente. I codici sono il risultato della somma delle nostre esperienze di vita, professionali, delle nostre competenze acquisite e delle nostre abitudini quotidiane che ci portano, necessariamente, a dare per scontato tanto che per qualcuno potrebbe non esserlo.

Un altro grande protagonista è il canale che decidiamo di utilizzare per trasmettere la nostra informazione. In base al canale scelto (la semplice scrittura, le email, un audio, un video o anche solo una semplice immagine), l’informazione codificata può giungere in maniera diversa al ricevente: si pensi a quanto è più facile, oggi, imparare a preparare un buon risotto guardando un video su YouTube, piuttosto che leggendo un classico libro di cucina.

La terza variabile è rappresentata dal rumore che si insinua inatteso e incontrollabile nel nostro flusso comunicativo. Il rumore può essere esogeno (per esempio un’interferenza in un messaggio audio che ne rende di difficile comprensione il contenuto), ma, soprattutto, endogeno: un linguaggio troppo tecnico in rapporto alle competenze del nostro interlocutore, la scelta di un contesto sbagliato in cui rendere la nostra informazione, ma, anche l’organizzazione visiva e scritta poco chiara delle informazioni (tutti riceviamo quelle belle email lunghe decine di righe, senza il corretto uso della punteggiatura, senza spazi di interlinea e con frasi senza fine).

È fondamentale pensare a una strategia personale di affinamento della nostra comunicazione che abbia come obiettivo ridurre al massimo il rumore, ottimizzare la scelta del canale comunicativo (ogni informazione ha una canale di elezione) e soprattutto essere sempre certi che il nostro codice sia trasparente e comprensibile al nostro interlocutore che non deve, necessariamente, farlo suo, ma sicuramente comprenderne le specifiche.

Creare un ecosistema per fare le giuste domande

L’analisi proposta vale, una volta in più, quando a interagire sono generazioni distanti per età o formazione; in questo caso, spesso, accade che anche solo un semplice atteggiamento posturale o un’espressione del viso sia interpretata erroneamente. Spesso, in questo caso, il bias da ruolo impedisce letteralmente a persone, per esempio, con profili più junior di fare quanto necessario per comprendere appieno il senso di quello che ascoltano.

Si corre un grande rischio nel non impegnarsi, tutti e insieme, a creare un ecosistema di equità, equilibrio e trasparenza comunicativa: perdersi o sottovalutare la creatività, la potenzialità innovativa, le idee e i pensieri di quelli che amo chiamare “lonely guys”. Persone che, di fronte alla resistenza creata dalle variabili che abbiamo citato, decidono di rimanere, nella migliore delle ipotesi, in una condizione di ascolto passivo non permettendo al tanto di buono che hanno di emergere come dovrebbe.

La soluzione, la chiave inglese, la spada laser che aiuta in tutto questo è lì, alla portata di tutti noi: fare domande, per qualsiasi motivo, in qualsiasi contesto e qualsiasi sia il ruolo in cui ci si trova. Dobbiamo tornare un po’ bambini quando nulla ci fermava dal fare domande a raffica, con il solo intento di scoprire e imparare. Allo stesso tempo diventa fondamentale creare un ecosistema umano, nelle aziende, in cui fare domande sia riconosciuto come di valore, per tutti; anche le più banali (spesso solo presunte tali), anche le solite ascoltate mille volte, tutte quelle che servono a quella persona, in quel contesto, in quel momento. Non vorrete per caso rischiare di perdervi una grande occasione per colpa di un… pollice alzato male!?

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Pippo Sorrentino

Pippo Sorrentino

Dopo oltre 25 anni vissuti in azienda a occuparmi di cose, sono tornato a occuparmi esclusivamente di persone. Da imprenditore ho capito quanto fondamentale sia il ruolo delle persone all’interno di un’azienda e non solo per le loro competenze. Non amo parole come “risorse” o “collaboratori”, amo le persone per quello che sono… persone. Oggi mi occupo di facilitare la creatività e il cambiamento con l’aiuto di metodologie di gioco serio. Ho la convinzione che l’uso dei giochi permetta alle aziende di estrarre il meglio dalle persone in termini di creatività e unicità. L’esperienza mi ha mostrato come le risposte a domande 'serie' create, costruite, generate con il gioco portino un valore inaspettato e inestimabile.

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