Welfare, un affare da grandi (aziende)
Il welfare pubblico arretra. E non potrebbe essere altrimenti vista la questione demografica che pesa sull’Italia. Al suo posto subentrano le politiche messe in campo dalle imprese, il cosiddetto welfare aziendale. Indaga da tempo su questo aspetto il rapporto Welfare for people della Fondazione Adapt, giunto alla settima edizione e nel 2024 incentrato sul settore agricolo. Il sistema di aiuti concesso dalle aziende, è una delle conclusioni alla quale sono arrivati gli studiosi, sarà sempre più necessario: “Va concepito però non solo come buoni benzina o bonus spesa di vario tipo, ma come un insieme di strumenti che accompagnino le trasformazioni del mondo del lavoro”, ha precisato Francesco Seghezzi, Presidente della Fondazione Adapt presentando lo studio a inizio ottobre a Roma.
Per i lavoratori non è più sufficiente il rimborso spese tout court. Come ha osservato lo stesso Seghezzi, “viviamo tempi di trasformazioni demografiche, con crescente invecchiamento della popolazione e maggiore incidenza di malattie croniche”. Tra le difficoltà più sentite c’è la conciliazione con il tempo privato. E gli interventi, in questo caso, devono essere concreti, come per esempio la garanzia di un’assistenza che supplisca ai caregiver. “Invecchia un familiare e un altro se ne fa carico: ma se per qualche ragione deve assentarsi si manda qualcuno a casa che cucini e faccia la spesa al suo posto”, ha spiegato Tiziana Lamberti, Executive Director Sales and Marketing wealth Management and Protection di Intesa Sanpaolo. E poi c’è la flessibilità organizzativa, una necessità che si fa più pressante e a cui devono fare fronte i diritti: “Parliamo in questo caso dei congedi, che rispondano ai problemi di conciliazione”, ha aggiunto il Presidente di Adapt.
La sola contrattazione collettiva, però, non riuscirebbe da sola a coprire il fabbisogno dei lavoratori. E se le grandi aziende sono in grado di offrire determinati benefit, le piccole invece non possono permetterselo. Il welfare integrativo, così dicono gli studi, cresce in proporzione alle dimensioni aziendali: se è al 15,1% nelle piccole imprese, passa al 24,8% in quelle medie e al 27,6% in quelle medio-grandi, fino al 36,6% nelle realtà di grandi dimensioni. A ‘ricucire’ la distanza ci pensa “la contrattazione secondaria”, come illustrato da Seghezzi, ovvero quella ritagliata su misura sulle aziende per perseguire alcune finalità specifiche. E poi c’è “il ruolo prezioso svolto dalla bilateralità”, altro tema affrontato dal report di Adapt.
Il welfare come leva d’ingaggio
Gli enti bilaterali, com’è noto, sono regolati dal decreto legislativo 10 del 2003: si tratta di organismi costituiti a iniziativa di una o più associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative, quali sedi privilegiate per la regolazione del mercato del lavoro. Nello specifico, esistono anche nel settore agricolo, come illustrato da Roberto Caponi, Presidente di Eban, ente composto da Confagricoltura, Coldiretti e Cia e dai sindacati Flai Cgil, Fai Cisl e Uila Uil, che ha ricordato che l’Empaia risale al 1936. Allora erano casse extra legem, che fornivano all’assicurato un supporto al reddito in caso di infortunio e malattia. È stata fatta tanta strada, anche se molta ne resta ancora: “Specie adesso che uno dei problemi principali è far aderire i lavoratori, per lo più stranieri e stagionali, che quindi difficilmente si convincono a iscriversi alla previdenza complementare”, ha commentato Caponi.
C’è poi il tema della scarsità di risorse, che riguarda tutti i settori di mercato e l’Agricolo non fa eccezione. Dei 24 milioni di occupati italiani, 1 milione sono lavoratori agricoli e per oltre il 90% sono stagionali. “Dal momento che i giovani italiani hanno perso interesse in questo mestiere, non tanto dal lato imprenditoriale quanto in quello operativo, dobbiamo prepararci a un futuro in cui a intraprenderlo saranno solo immigrati”, ha ricordato Onofrio Rota, Segretario generale Fai Cisl. E a complicare il quadro c’è la platea dei lavoratori destina a ridursi: secondo le statistiche la perdita sarà di circa 7 milioni entro il 2050. Non solo, perché Welfare, un affare da grandi (aziende). “Dare continuità di reddito e misure pensionistiche complementari è la via da perseguire per tenersi ben stretti i lavoratori che si hanno”, ha rilanciato Rota. Ma per rendere sostenibile il welfare è fondamentale che pubblico e privato si integrino.
Finanziare le attività di formazione
Parlando di welfare aziendale è chiaro che le misure adottate dalle aziende devono essere in sintonia con i numeri delle imprese: il welfare non può essere un ‘regalo’ senza un ritorno economico. Lo stesso report di Adapt evidenzia questo aspetto: “Tanto il fatturato per addetto quanto il margine operativo lordo per ogni persona aumentano quasi linearmente al livello di welfare, raggiungendo i valori più elevati nel segmento delle imprese con maggiori proposte di misure per il benessere dei collaboratori”. L’indice di reddittività è passa nel 2022 dai circa 5,800 euro delle imprese con livello iniziale di welfare ai quasi 23mila delle imprese di livello molto alto; tra queste ultime la crescita è stata più robusta della media generale e l’indice è sostanzialmente raddoppiato dal 2019 al 2023. In sintesi: più le aziende prosperano più investono in welfare; e, a loro volta, migliorano i risultati aziendali.
Ma quali sono le misure di welfare che vanno per la maggiore? Dai casi analizzati da Adapt emerge come le prestazioni principali sono in primis i trattamenti integrativi in caso di malattia e infortunio dei lavoratori; a seguire le spese mediche e sanitarie quali contributi una tantum e rimborsi di spese mediche specialistiche o diarie giornaliere in caso di ricovero; e poi ci sono i contributi ad hoc per i lavoratori con figli (è il caso di premi nascita o contributi per istruzione). In merito a queste ultime misure, Seghezzi ha spiegato: “È un bene proprio mentre l’Istat conferma l’aumento dell’occupazione femminile”. Infine il finanziamento di attività formative: “Il momento storico impone che le competenze si aggiornino di continuo per rimanere attivi all’interno del mercato del lavoro”.
Giornalista professionista, classe 1981, di Roma. Fin da piccola ha avuto il pallino del giornalismo. Raccontare i fatti che accadevano, quale mestiere poteva essere più bello di così? Laureata in Giurisprudenza alla Sapienza nel 2006 con un Erasmus a Madrid. Nel 2009 ha conseguito il master in Editoria, giornalismo e management culturale, di nuovo alla Sapienza. Nel mentre gli stage (Associated Press, Agi e Adnkronos) e i primi articoli per i giornali, quasi sempre online. All’inizio si è occupata di cultura e spettacoli, con il tempo è passata a temi economici, soprattutto legati al mondo del lavoro. Che è il settore di cui si occupa principalmente anche oggi.
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