Quiet quitting

Il disimpegno silenzioso

Qualche anno fa, collaboravo con un’azienda di automazione industriale. Ricordo un episodio che ha lasciato in me un’impressione profonda. Lavoravo gomito a gomito con un giovane ingegnere. Ci occupavamo di tematiche connesse alla comunicazione della sicurezza (safety). Marco, lo chiamerò così, tecnico di talento, incarnava il modello del dipendente ideale: innovativo, instancabile e sempre desideroso di affrontare nuove sfide. Lo incontravo alla mattina. Lui era già lì. Arrivava presto, prima di tutti gli altri. Partecipava in modo attivo alle riunioni. Era sempre disponibile ad affrontare nuovi progetti con un entusiasmo che ci contagiava. Poi, come se fosse stato contagiato da uno strano virus, lo vidi cambiare. Dapprima notai in lui una trasformazione sottile, appena percettibile. Il processo fu graduale, tant’è che all’inizio non diedi molta importanza ai segnali che mi sembrava di avvertire. Cominciò con il rifiutare garbatamente alcune responsabilità. Sosteneva che non rientrassero nel suo ruolo. Le sue comunicazioni via email dopo l’orario di lavoro diminuirono e il flusso di idee che un tempo generava azione e impulso per la crescita del team si fece più limitato. Progressivamente, ridusse il suo contributo agli aspetti essenziali della sua mansione.

Marco non era diventato pigro o disinteressato. Al contrario. Continuava a svolgere i suoi compiti con meticolosa precisione, rispettando tutte le scadenze e gli obiettivi. Tuttavia, sembrava che avesse tracciato un confine invisibile intorno al suo ruolo, una sorta di ‘scudo deflettore’ che impediva ai colleghi di poterlo raggiungere con richieste che non fossero allineate in modo ferreo, quasi burocratico, con le responsabilità definite dalla sua job description. Ripensando a quella trasformazione, trovo una consonanza con un fenomeno emergente nel mondo di oggi. Marco stava mostrando un comportamento che, probabilmente, verrebbe etichettato come Quiet quitting, un concetto che sfida le nostre precomprensioni radicate di dedizione al lavoro e di successo professionale. Non si trattava di un ritiro integrale. Sembra più una silente revisione, soggettiva, quasi intima, del contratto psicologico con l’organizzazione.

Un sintomo del cambiamento del mondo del lavoro

Quell’esperienza mi interroga: quali fattori possono spingere una mente brillante come quella di Marco ad adottare questo ‘stile comportamentale’? Quali implicazioni ha questo fenomeno emergente per la cultura del lavoro in cui siamo immersi ?Mi pare che, oggi, comportamenti come quelli di Marco non siano casi isolati. Anzi, sono la manifestazione di una tendenza più ampia che sta pian piano affiorando nelle nostre aziende. Ciò che i social chiamano, mi azzardo a tradurre, ‘abbandono silenzioso’ – ossia non un allontanamento dirompente, ma un sottile ridimensionamento del proprio impegno lavorativo – è un fenomeno sempre più frequente. Le sue cause, probabilmente, sono molte e complesse. Non mi arrischio qui a citarne una sola, sarebbe semplicistico. Il Quiet quitting affonda le sue radici in un ‘buco nero’ di insoddisfazione così profondo e denso da attrarre qualsiasi luce motivazionale. È qualcosa che si stratifica nel tempo, alimentato da aspettative crescenti, costantemente frustrate, da pressioni persistenti e da un graduale indebolimento del confine tra sfera professionale e personale.

Molti vedono in questo fenomeno una risposta alla cultura della fretta, quella mentalità che celebra il lavoro incessante come unica via per la realizzazione di sé. Altri lo interpretano come il riflesso di una generazione che si sente costretta e non valorizzata. In ogni caso, il Quiet quitting ci spinge a confrontarci con interrogativi su quello che chiamiamo ‘mondo del lavoro’ e sul tipo di società che stiamo costruendo. Le sue implicazioni sono profonde e non possono essere ignorate. La preoccupazione va oltre la semplice perdita di produttività. Il rischio reale risiede nella potenziale creazione di un ambiente privo di quella scintilla di entusiasmo e d’innovazione che, spesso, distingue un’azienda normale da un’impresa a misura d’essere umano. Tuttavia, potrebbe essere limitante interpretare il Quiet quitting esclusivamente attraverso la lente del problem solving. Leggerlo, invece, come un sintomo potrebbe farci cogliere un’opportunità per ripensare profondamente il nostro approccio al lavoro e al benessere dei collaboratori. Non si tratta semplicemente di attivare programmi di welfare o di organizzare più eventi aziendali. Il ruolo della funzione HR è molto più sfidante. Dobbiamo rivisitare la concezione antropologica e i valori da essa derivanti, da cui discende l’immagine di ‘essere umano al lavoro’. La chiave potrebbe risiedere nel passare da una mentalità di suddivisione, categorizzazione e uso della risorsa umana a una visione antropocentrica dell’organizzazione. Questo nuovo modo di pensare potrebbe creare le condizioni per un clima lavorativo più adatto agli umani. In fondo, anche le macchine più efficienti hanno bisogno di una temperatura ottimale per funzionare al meglio, figuriamoci le persone.

senso del lavoro, benessere organizzativo, Quiet quitting


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Mauro De Martini

Consulente e formatore, gestione risorse umane e comportamenti organizzativi. È inoltre autore del libro Note di formazione (Edizioni ESTE, 2021).


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