Crisi_Pil

L’irresponsabilità che affonda il Pil

Il solo far notare come negli ultimi 30 anni abbiamo perso il 30% di Prodotto interno lordo (Pil) reale rispetto ai Paesi concorrenti dà fastidio a molti e si corre il rischio di essere tacciati di disfattismo. Il far notare poi che sarà molto difficile uscire da tale situazione, comporta l’accusa di pessimismo. Sembra che gli italiani debbano essere trattati come bambini – o peggio – malati ai quali è meglio non dire esattamente come stanno per non farli preoccupare. Ma ci dovremmo invece fare due domande: come si può raddrizzare la situazione senza prendere atto dei grandi errori fatti e senza attivare una nuova energia? Come si può sperare in una ripresa senza cambiare i paradigmi socio-economici che hanno causato il degrado progressivo che ci ha portati all’attuale situazione?

Ciò che intellettualmente e umanamente scoraggia di più è il fatto che la maggioranza delle persone rifiuta addirittura di porsi tali domande. Per quanto riguarda chi è stato al Governo negli ultimi 30 anni esistono sicuramente motivi di ‘opportunità politica’ per non farlo: appare infatti evidente che questi non sono disposti a fare autocritica. In effetti anche l’attuale Esecutivo si guarda bene dal dire apertamente che non sa che cosa fare, pur avendo l’alibi che non esiste finanza sufficiente per supportare nuove strategie.

Il problema è ora, infatti, che nessun partito fa proposte serie a riguardo e si distrae l’attenzione su altre questioni puramente ideologiche che non hanno molto da spartire con il problema del come aumentare significativamente la capacità di generare Pil. La stampa è complice della situazione, perché si focalizza su questi temi amplificandone la discussione per creare maggior interesse: non è un caso che da 30 anni si collochi oltre il 40esimo posto per “oggettività dell’informazione” (nel 2020-2022 siamo arrivati al 58esimo posto).

Mancano le competenze per la ripresa

In realtà la mancanza di consapevolezza della gravità della situazione, e del saper discutere su che cosa occorrerebbe fare a riguardo, è probabilmente causata anche dall’attuale livello culturale generale dei cittadini e soprattutto dalla tipologia di tale cultura. Se infatti consideriamo le capacità intellettuali, culturali e pratiche che servono per competere economicamente con gli altri Paesi, non siamo messi molto bene. Occorre considerare che ricchezza e povertà di un Paese non sono più fatti autonomi, ma sono determinati dalla capacità di creare valore in assoluto e rispetto alle altre realtà (è il concetto di competitività).

Come sappiamo, secondo l’Ocse siamo purtroppo tra gli ultimi Paesi al mondo in capacità matematiche e alfabetismo funzionale e (sembra) solo al 31esimo posto in coefficiente di intelligenza. Saremo più acculturati nelle materie umanistiche ma, ahinoi, queste hanno una minore leva sulle prestazioni economico-competitive. Sicuramente siamo penultimi in Europa in percentuale di popolazione laureata e ultimi per il numero di lauree tecniche. Ed è chiaro che sono proprio queste le capacità fondamentali per lo sviluppo di prodotti e servizi a maggiore valore, cioè proprio quelli che hanno consentito ai Paesi nostri concorrenti di aumentare il Pil pro-capite e di conseguenza i salari medi: siamo infatti gli unici a non averli aumentati dal 1990, mentre quelli che li hanno aumentati in percentuale minore sono arrivati ad almeno il 30%.

Potrebbe poi risultare pericoloso, in quanto illusorio, credere che il limitato aumento dei salari medi riscontrato nel 2024 sia l’inizio di un nuovo trend, perché siamo ancora a livelli reali inferiori del 7% (rispetto al potere di acquisto) in confronto ai livelli pre-covid (dal 2019 abbiamo avuto una inflazione cumulativa pari a oltre il 14%).

Le scelte miopi che bloccano la ripresa

Le irresponsabili scelte fatte finora (causa del nostro degrado socio-economico) non sono però state frutto della sola politica. Sicuramente sono stati complici anche i sindacati, le associazioni degli imprenditori e dei professionisti. Tutti sono accomunati da una miopia ingiustificabile, frutto probabilmente anche del generale ‘analfabetismo funzionale’ della popolazione. Cito come esempio una delle maggiori cause del nostro enorme debito pubblico e dei bassi salari netti della nostra popolazione: come si poteva pensare a un sistema pensionistico sostenibile su base retributiva? Chi avrebbe dovuto pagare tali pensioni senza che il beneficiario ne avesse versato i necessari contributi? Chi ha pensato che fosse sostenibile? Chi non ha obiettato a riguardo dovrebbe vergognarsi per ignoranza o opportunismo.

Come è stato possibile non pensare a questi aspetti per alcuni decenni? Ovviamente la soluzione è stata quella di produrre debito statale che appunto ora ci impedisce di avere risorse per la Sanità e per ridurre il cuneo fiscale delle retribuzioni. Eppure chi si lamenta dei problemi, per esempio sanitari, sono proprio coloro che hanno promosso le pensioni su base retributiva… È vero che indietro non possiamo tornare, ma è pur vero che non possiamo più commettere errori simili.

Tuttavia, molti sembrano continuare a pensare che la povertà si possa ridurre e che i salari medi si possano aumentare attraverso leggi, contratti collettivi e ricorso a fondi pubblici. Anche in questo caso si confondono i rimedi con le cause. E perfino sostenere che la povertà si combatta prioritariamente riducendo le diseguaglianze – cosa ovviamente di per sé giusta – non considera alcuni aspetti che riguardano la logica di appartenenza a mercati globali. Se si considerano interventi sulle liquidità dei ‘ricchi’, tali azioni non possono essere efficaci nel tempo, perché i capitali liquidi scappano facilmente se aggrediti.

Rispetto ai redditi delle imprese, invece, l’Italia è forse il Paese al mondo meno capace di sfruttarli fiscalmente. Uno degli errori commessi nel passato – anche in questo caso guidato dall’ideologia – è stata l’adozione di aliquote e modalità fiscali penalizzanti per le nostre grandi imprese, con il risultato che ora queste consolidano i loro bilanci e i loro utili in altri Paesi, quasi sempre anche delocalizzando le loro Operations con i relativi dipendenti. Tali assetti fiscali sono stati penalizzanti anche per i possibili nuovi insediamenti da parte delle multinazionali high tech, che hanno ovviamente preferito andare in paesi più ‘tax friendly’. Questo orientamento si dimostra ora molto grave per il possibile sviluppo del nostro ecosistema economico, specialmente per l’innovazione.

I vani sforzi per rilanciare la produttività

Tornando ai grandi errori, ce ne sono anche di più recenti. Uno riguarda il continuare a credere nei vecchi modelli industriali del Miracolo economico che hanno resistito dagli Anni 50 agli Anni 80: erano modelli basati su aziende di produzione con un mix fra grandi imprese e tante piccole realtà che si sviluppavano nei loro ecosistemi di business. Come si è potuto pensare che tale sistema economico potesse risultare ancora sostenibile con la sparizione in Italia delle grandi aziende industriali? Ci si è probabilmente illusi che l’aggancio delle nostre Piccole e medie imprese (PMI) alle filiere di grandi aziende tedesche o francesi potesse perpetuarne la sostenibilità. Ovviamente non si doveva confondere la possibile continuità con la sostenibilità e lo sviluppo economico. Ma così è stato.

Come si è potuto immaginare che business gestiti sul mercato finale da aziende straniere potessero garantire anche a noi lo stesso aumento di produttività da loro realizzato? In questo caso vedo responsabilità anche da parte di imprenditori e sindacati. Magari si è continuato anche a credere che per aumentare la produttività di un sistema economico fosse sufficiente agire sull’efficienza, cioè sul denominatore dell’indice di produttività, che è costituito dal rapporto tra il valore prodotto e l’ora di lavoro. Non a caso, nonostante i tanti finanziamenti spesi per programmi di aumento dell’efficienza (per esempio il Piano Industria 4.0) la produttività del sistema Italia è ferma al 1970, mentre in Germania, Francia, Spagna è aumentata del 60%.

Sì, è un problema anche culturale. Non si vuole infatti capire che gli altri Paesi hanno aumentato la produttività aumentando il valore dei prodotti-servizi (il numeratore dell’indice di produttività) e non l’efficienza del lavoro. Concetto banale, ma forse non così chiaro per tutti. E dopo 30 anni di miopia ereditiamo l’attuale situazione economica, caratterizzata da un grande debito, perché lasciamo ai nostri figli e nipoti oltre 100mila euro da risanare per ogni lavoratore, e con salari molto bassi rispetto al resto dell’Europa e, soprattutto, con una competitività in continuo calo.

servitizzazione, produttività, Pil Italia


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Giorgio Merli

Giorgio Merli è autore di numerosi libri e articoli sul management pubblicati in Europa e negli Usa; è consulente di multinazionali e Governi, oltre che docente in diverse università in Italia e all’estero. È stato Country Leader di PWCC e di IBM Business Consulting Services

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