Smart_working_pentiti

I pentiti (contenti) dello Smart working

Sono una ferma oppositrice pentita dello Smart working. Prima del Covid ero assolutamente contraria al lavoro agile, ritenendolo solo una modalità per dipendenti nullafacenti di far nulla nel comodo ambiente di casa. Poi sono stata costretta a provarlo e mi sono ricreduta, sia come manager sia come persona che ne usufruisce. Il mio team ha lavorato di più (e meglio) quando è stato costretto a stare in smart (anche cinque giorni alla settimana per alcuni mesi); ma non solo, le mie persone erano più serene, più soddisfatte e più ingaggiate.

Ne ho beneficiato anche io, sebbene la quantità di lavoro aumentasse, e io abbia faticato a fissare dei confini fra la vita lavorativa e quella personale. Lavoravo da casa mia, bevevo le mie tisane, mangiavo cibo preparato da me al momento e poi ho anche imparato a gestire i miei tempi.

La produttività passa dal benessere

I benefici dello smart sono noti a tutti: meno vita buttata chiusi in una macchina (o sui mezzi di trasporto sporchi e maleodoranti); risparmio spese di trasporto; maggior equilibrio fra vita lavorativa e privata (sapendo mettere dei confini); minor inquinamento; minori spese per le aziende in termini di spazi; possibilità di assumere professionalità di zone lontane.

Non entro nella questione della maggiore o minore produttività in generale: nel mio caso e in quello del mio team (e di molti altri che ho potuto osservare), è aumentata. Le persone che in ufficio lavorano lo fanno anche da casa; chi in ufficio non lavora, non lo fa nemmeno da casa. La produttività non varia rispetto alla modalità organizzativa scelta; sono altre le variabili che incidono su questa voce (una fra tutte il benessere).

Tutelare la socialità e le relazioni

Ma veniamo al nodo della socialità. Per me è aumentata: è facile collegarsi con tanto di telecamera, dedicare tempo alle persone e non limitare i contatti a coloro che lavorano sul mio stesso piano. Parliamoci chiaro e con onestà: in una grande azienda i colleghi che si frequentano sono i ‘vicini’ di ufficio. Eppure svolgere riunioni sulle piattaforme digitali è diventata la prassi e stare in contatto con i colleghi stranieri è stato usuale per me: ho  migliorato le lingue che parlo e i rapporti con loro. Non mi sono mai sentita isolata, anzi, avevo bisogno di meno contatti, alle volte.

Oggi sono una sostenitrice della bontà dello strumento. Ma non della sua assolutizzazione. Va da sé che esistono mansioni che possono essere svolte da remoto e altre che non possono essere svolte in questa modalità. Questo è il primo discrimine. Il secondo è che credo nella formula mista tre-due (tre giorni in smart e due in ufficio o viceversa), perché frequentare il posto di lavoro aiuta a mantenere il contatto con la realtà e con il clima aziendale. Unico neo che vedo nella formula ibrida è il limite che pone alle assunzioni di personale dal punto di vista geografico.

Smart working, lavoro agile, Massimo Giannini

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