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Il futuro nero dell’economia italiana

È interessante leggere le recenti analisi fornite dal Censis e dalla Cgia di Mestre sull’economia italiana. Nel suo ultimo report, l’istituto di ricerca socio-economica italiano ha scritto: “Negli ultimi 20 anni il reddito lordo pro capite degli italiani è calato del 20% e la ricchezza netta negli ultimi 10 anni è calata del 5,5%”. La Cgia di Mestre ha fatto sapere: “Nel 2024 l’occupazione è cresciuta del 3,6%, è diminuita la quota dei precari, è aumentata la cassa integrazione, produttività e salari non sono aumentati”.

Negli ultimi 20 anni siamo stati l’unico Paese dell’Europa occidentale a perdere in assoluto sia nel Prodotto interno lordo pro capite sia nel salario medio. Rispetto ad altre realtà abbiamo addirittura perso il 60% di produttività del lavoro dal 1970 a oggi, con un crollo dal 2008. Nel 2024 sta forse andando meno peggio, ma stiamo esaltando differenze dell’ordine dello 0,5-1%, cioè valori insignificanti rispetto ai gap accumulati.

Forse avrebbe potuto essere peggio, ma non c’è alcun indicatore rassicurante per il futuro. Il Pil non cresce, nonostante il contributo della coda dei fatturati da superbonus e della quota del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) già speso. Senza questi due contributi il Pil risulterebbe negativo. A fronte di questo scenario si fa spesso riferimento al mancato aumento del Pil pro capite e ci si affida, in generale, ai 130 miliardi di Pnrr da spendere entro il 2026 per accelerare l’ammodernamento del Paese, come se nella nostra economia ci fosse già in corso un ammodernamento impattante i dati economici…. È bene, infatti, non dimenticare che il solo fattore che può aumentare il Pil pro capite è la produttività del lavoro e questa è ferma al 1970, nonostante il finanziamento di programmi come Industria 4.0 (ora Industria 5.0).

Crescono i lavori a basso valore aggiunto (e basso salario)

Con riferimento ai numeri sull’occupazione comunicati dalla Cgia di Mestre, la diagnosi è semplice: se aumentano i lavoratori, ma il Pil non cresce, significa semplicemente che è aumentata la platea dei retribuiti, ma non il loro valore prodotto in totale. Esiste in ciò un fatto positivo, cioè che ci sono meno disoccupati. Positivo anche il fatto che tra di essi molti sono probabilmente ex percettori di reddito di cittadinanza (che ora si mantengono più o meno da soli e non gravano più sulle casse dello Stato).

L’aspetto negativo è il fatto che a fronte di un maggior numero di lavoratori, il Pil nazionale non aumenta: ciò significa che il valore prodotto per lavoratore è diminuito. Stanno cioè crescendo posti di lavoro a minor valore aggiunto e quindi anche a minor salario. Infatti sta quasi sicuramente calando il salario medio. Quest’ultimo è scandalosamente basso rispetto agli altri Paesi dell’Europa occidentale, ma contemporaneamente è fra i più alti percentualmente rispetto al Pil pro capite: aumentarlo solo tramite i contratti collettivi nazionali può essere un autogol.

Infatti, se non aumenta il valore prodotto pro capite, tale maggior costo ridurrà i margini delle imprese e aumenterà la spesa pubblica per gli statali. Per le imprese si tratta di ridurre la loro competitività (laddove basata anche sul costo del lavoro) e le loro possibilità di investimento; per gli impiegati statali significa aumentare la spesa pubblica, riducendo le risorse da dedicare allo sviluppo. Sicuramente tali aumenti potrebbero attivare un aumento dei consumi interni con relativo aumento del Pil, ma sicuramente non impatteranno sulla produttività del lavoro, che è il vero problema cha abbiamo nei confronti degli altri Paesi.

Senza aggiungere valore l’economia non si riprende

Sul tema del Pil pro capite sono in atto trend che impattano molto più negativamente rispetto al peso dei salari. In particolare, come confermato dalla Cgia di Mestre, ce ne sono due da attenzionare. Da una parte cala la produzione industriale (calo confermato anche dall’aumento della cassa integrazione guadagni, Cig), dall’altra aumenta il volume del Turismo a basso valore e di altri lavori poveri. Magari si tratta, in parte, di lavori semplicemente emersi dal ‘nero’, ma siccome sappiamo che il contributo al Pil da parte l’economia sommersa è già inclusa nel suo calcolo (stesso algoritmo usato dal 2014 da tutti i Paesi), non si tratta di lavori che creano Pil aggiuntivo. E infatti non si riscontra un aumento del Pil.

Comunque un altro fatto negativo è proprio questo: la produttività è diminuita anche nei servizi. A fronte di un inevitabile declino della componente industriale del Pil (trend comune a tutti i Paesi occidentali, specialmente per quelli con più Manufacturing, cioè Germania, Giappone e Italia), è mancato l’aumento del volume e del valore dei servizi. E questo è il nostro vero problema: nel nostro Paese continuiamo ad avere servizi a basso valore, inferiore a quello dei prodotti industriali. Aumentando il peso dei servizi sul Pil è ovvio che il valore medio prodotto dai lavoratori diminuisce. E ciò impedisce ogni sostenibile aumento salariale.

Come uscirne? Basterebbe smetterla di essere autoreferenziali e iniziare, invece, a confrontarsi con le altre economie occidentali con salari medi molto più alti dei nostri. Questi ultimi sono ovviamente frutto di Pil pro capite molto più alti dei nostri: scopriremmo così che in quelle realtà si fanno prodotti, e soprattutto servizi, a maggior valore dei nostri. La questione, però, è che pochi tra politici, sindacati e imprenditori sanno di che cosa si tratta e qualcuno neppure lo recepisce quando si tenta di spiegarglielo. C’è ancora chi si chiede che cosa significhi “servitizzazione dei prodotti”…

Il problema è che c’è indifferenza quando si cerca di far comprendere alla classe dirigente che è stato proprio lo sviluppo di tali modelli di business basati sul servizio a fornire i maggiori incrementi di Pil nei Paesi che ora hanno i maggiori Pil pro capite (Usa, Svezia, Irlanda…). Si vorrebbe continuare a fare le stesse cose di prima pretendendo di aumentare fatturati e retribuzioni: si pensi, per esempio, se può essere sostenibile continuare ad avere grandi volumi di produzione nell’Automotive pur avendo costi del lavoro (ma anche dell’energia) tripli rispetto ad altri Paesi europei come Polonia, Ungheria e Romania… E per di più immaginando di poter aumentare i salari a parità di situazione competitiva. Siamo così analfabeti da pensare che ciò sia possibile?

Economia italiana, Cgia Mestre, censis


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Giorgio Merli

Giorgio Merli è autore di numerosi libri e articoli sul management pubblicati in Europa e negli Usa; è consulente di multinazionali e Governi, oltre che docente in diverse università in Italia e all’estero. È stato Country Leader di PWCC e di IBM Business Consulting Services

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