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AI, nemica o alleata del lavoro?

L’Intelligenza Artificiale (AI) potrà distruggere o potenziare il lavoro. Ciò dipende dalle politiche e dai cantieri che i soggetti istituzionali e imprenditoriali attueranno. Di seguito, presento un approccio e un metodo per sviluppare una ‘buona’ AI, come ho diffusamente illustrato nel volume Intelligenza Artificiale e lavoro, una rivoluzione governabile, in collaborazione con Giorgio De Michelis (Marsilio, 2024).

La pubblicistica e la pubblica opinione stanno attivando focose controversie, vivissimi allarmi e previsioni catastrofiche su vari temi. L’insieme delle applicazioni potrebbe dar luogo a un’intelligenza superiore a quella di tutti gli esseri umani: l’AI finirebbe con il prendere decisioni al posto nostro, falsificherebbe in modo incontrollabile informazioni e immagine, sarebbe capace di imparare e autoprogrammarsi, si sgancerebbe dal controllo umano rendendo gli umani schiavi o inutili, come nel caso di Hal di 2001: Odissea nello spazio e molte altre narrazioni distopiche. Fra queste, quella per cui l’AI eliminerebbe enormi quantità di posti di lavoro e impoverirebbe molti dei lavori superstiti.

Contesteremo le visioni distopiche che riempiono i media trattando il punto chiave della rivoluzione in atto: l’AI e il lavoro. Ma sfuggiremo al rischio di associarci alla bulimia delle infinite previsioni non provate e non provabili sul futuro del lavoro, concentrandoci invece sulle azioni che possiamo concretamente intraprendere, ossia politiche fattibili e cantieri sociotecnici.

AI cattiva e AI buona

In sintonia con gli studiosi del MIT Daron Acemoglu, a cui è stato attribuito il premio Nobel per l’Economia, e Pascual Restrepo, si può affermare che l’AI propone un bivio: una wrong AI, tesa a ottenere aumenti di produttività, eliminando posti di lavoro e delegando gran parte dei processi operativi e decisionali alle tecnologie, ossia un potenziamento dell’attuale intensificazione del capitalismo finanziario; oppure una right AI, capace di ‘allargare la torta dei prodotti e servizi offerti’ e, contemporaneamente, di aumentare le capacità innovative e creative delle persone impegnate in lavori e in organizzazioni di qualità e di nuova concezione, ossia uno scenario di rigenerazione del capitalismo socialmente responsabile.

In realtà, l’AI promette aumenti di produttività senza precedenti, creando prodotti e servizi di migliore qualità e a costo inferiore, assicurando la crescita dei fatturati e la possibilità di creare un numero aggregato di posti più alto rispetto a quelli che l’AI elimina. Ma perché questo avvenga, va progettata un’AI buona, orientata a risolvere molti fra i gravissimi problemi di sostenibilità, innovazione, produttività, qualità della vita e del lavoro e di altre sfide epocali che oggi dobbiamo affrontare, alla condizione che essa si sviluppi entro progetti sistemici guidati da utopie realizzabili.

La sorpresa dell’AI Generativa

Noi viviamo già da anni con l’AI. Numerosissime sono le applicazioni in atto, dal pilota automatico degli aerei su cui saliamo, all’Internet of Things (IoT) delle fabbriche automatizzate, agli smartphone che teniamo in tasca. Ma ChatGpt ha fatto un balzo e ha stupito il mondo. Rispetto alla problematica del rapporto fra AI e lavoro, una distinzione importante è fra AI simbolica e AI Generativa.

L’AI simbolica è quella tecnologia basata su regole per descrivere e gestire i sistemi. Essa consente di automatizzare task, attività che altrimenti verrebbero eseguite da esseri umani, come software, robot industriali e altro. È programmabile e segue regole, ontologie e algoritmi di ricerca scritti dall’uomo per dedurre conclusioni da un insieme specificato di vincoli o variabili. Questa è quella che, fin dagli Anni 80, ha fatto temere la perdita di posti di lavoro esecutivi. Ma, finora, tutto ciò per lo più non è avvenuto, perché è cambiata la struttura dell’occupazione.

L’AI Generativa è quella su cui sono basate ChatGpt e le altre recenti e più evolute applicazioni. Processa più conoscenza di quanto qualsiasi macchina abbia mai fatto ed è usabile da tutti: in pochi mesi è diventata oggetto di un business miliardario e planetario. È basata sul Large language model (Llm), ossia una tecnologia alimentata da reti neurali artificiali, che non opera sulla base di programmi, ma che ha accesso a miliardi di dati, processati attraverso un gran numero di algoritmi.

Impara e poi svolge autonomamente un grande numero di funzioni: rispondere a domande, generare testi, immagini e musica, tradurre, fare calcoli, scrivere codici di programmazione, dialogare e molto altro. Essa risponde a richieste dette prompt, instaurando un dialogo con l’interlocutore. Questa tecnologia evoca il timore che possa sostituire quote importanti di capacità cognitive e decisionali umane, mettendo a rischio posti di lavoro qualificati e influenzando le decisioni di individui e organizzazioni. Inoltre, si teme che possa diffondere informazioni verosimili, ma imprecise.

Previsioni apocalittiche sugli effetti dell’AI

La stima di PwC è che oggi il 3% dei posti di lavoro nel mondo siano messi a rischio dall’automazione tecnologica; alla fine dell’attuale decennio, arriveremo al 20% e, al termine degli Anni 30, assai vicini a uno scioccante 30%. Goldman Sachs (2023) scrive che due professioni su tre sono esposte a vario livello all’impatto dell’AI, ma ben un quarto delle attuali mansioni lavorative potrebbe essere completamente automatizzato negli Stati Uniti. “Estrapolando le nostre stime a livello globale, si evince che l’AI Generativa potrebbe mettere a rischio l’equivalente di 300 milioni di posti di lavoro a tempo pieno”, scrivono gli autori. Uno scenario da fine del lavoro, ma non deve andare per forza così.

Ci sono possibili e potenti antidoti. In primo luogo, infatti, le applicazioni dell’AI miglioreranno i prodotti e i servizi, aumentando fortemente il Prodotto interno lordo. Sempre secondo Goldman Sachs, l’adozione dell’AI Generativa potrà generare ulteriori 7 trilioni di dollari in 10 anni, con positivi effetti occupazionali. In secondo luogo, gli utenti che imparano ad avvalersi dell’AI genereranno nuove conoscenze che consentiranno di innovare e affrontare problemi inediti. L’AI, poi, creerà numerose nuove professioni. Non è da dimenticare che per queste trasformazioni ci vuole tempo: l’adozione dell’AI ne richiede molto per riconfigurare i rapporti con i clienti esterni e interni, gestire i vincoli, negoziare con le rappresentanze sindacali ecc. Ci si può riconvertire a nuovi lavori con una formazione continua e fatta bene, si può ridurre l’orario di lavoro a parità di salario e fare prepensionamenti che, se negoziati con successo, consentono potenzialmente di non lasciare a terra chi perderà il lavoro.

Questi antidoti vanno attuati con politiche e cantieri basati sul consenso che con l’AI potremo costruire un mondo migliore. L’effetto di job displacement prodotto dall’AI, in conclusione, non è quindi né certo né quantificabile né imminente, come le ricerche quantitative citate farebbero pensare.

L’articolo integrale è pubblicato sul numero di Ottobre/Novembre/Dicembre 2024 di Sviluppo&Organizzazione.
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Intelligenza artificiale, AI generativa, lavoro e intelligenza artificiale


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Federico Butera

Federico Butera è Professore Emerito all’Università degli Studi Milano-Bicocca e Presidente della Fondazione IRSO. Inoltre, è autore del recente libro Organizzazione e società – Innovare le organizzazioni dell’Italia che vogliamo (2020).

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